Danilo Dolci mentre parla con dei giornalisti (Foto: Nova Lectio, YouTube)

Chissà cosa avrebbe fatto Danilo Dolci guardando le immagini dei bambini di Gaza dilaniati, lui che nel 1952 si coricò nel letto di Benedetto Barretta, uno dei 14 bambini di Trappeto morti per denutrizione, per il suo primo sciopero della fame. Chissà cosa avrebbe scritto Danilo Dolci dell’informazione di oggi che, all’inchiesta seria e all’analisi, preferisce la chiacchiera da salotto e i pacchetti preconfezionati rigorosamente a tesi, lui che negli anni Sessanta parlava apertamente della comunicazione di massa come di uno strumento di potere e dei media come di veri e propri “virus del dominio” (e a proposito di virus, chissà come avrebbe accolto le falsità e le manipolazioni agite durante la pandemia…).

Danilo Dolci (Foto: YouTube, Nova Lectio)

Ciascuno cresce solo se sognato

Chissà cosa avrebbe pensato dei social dilaganti che ci illudono nelle relazioni, intorbidano le emozioni e istigano al fanatismo e all’invettiva, lui che per tutta la vita ha sottolineato la necessità di una comunicazione reciproca e interattiva, anche sostenuta, ma sempre positiva e mai violenta. E, infine, chissà se Danilo Dolci avrebbe potuto arginare l’effetto paralizzante delle riforme scolastiche degli ultimi vent’anni, lui che ha sempre parlato di educazione come della possibilità di aiutare i ragazzi a concepire la propria vita come una creazione, perché “ciascuno cresce solo se sognato”, per citare i versi di una sua famosa poesia.

Dalla parte dei più poveri

Come per Pasolini e pochi altri intellettuali, nel celebrare con un convegno e un festival il centenario della sua nascita, il 28 giugno 1924 a Sesana, piccolo paese allora in provincia di Trieste oggi territorio sloveno, è il rimpianto che oggi ci coglie per aver perso prematuramente – nel 1997 per i postumi di polmonite mal curata dopo un viaggio in Cina – la voce di un uomo umile e ardente, rigoroso e indomito, instancabile e straordinariamente coraggioso.

Un attivista, un poeta, un educatore che sceglie giovanissimo, dopo gli studi di architettura abbandonati ad un passo dalla laurea, di stare dalla parte degli ultimi.

In Italia, e soprattutto nell’Italia dell’immediato dopoguerra, i poveri e i diseredati sono ovviamente i contadini e i pescatori del nostro Sud. Danilo li vede per la prima volta in Abruzzo, dove si rifugia per sfuggire al nazifascismo e dopo la liberazione non ci pensa due volte a invertire la rotta classica della migrazione nostrana: dopo la breve esperienza emiliana alla comunità di Nomadelfia di don Saltini, Dolci sbarca in Sicilia, tra Trappeto e Partinico, a ovest di Palermo, per promuovere una liberazione che è culturale, sociale e politica.

L’azione civile

Un’azione di democrazia diretta che dai primi anni Cinquanta accompagna e innova la Sicilia dal profondo: Dolci sarà testimone e promotore di tutte le tappe di riscossa dell’isola, dalle prime proteste contro la miseria alla diga di Jato del 1962 strappata alla mafia, dallo scandalo della ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968 alla prima Radio Libera d’Italia nel 1970 per citarne solo alcune.

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Con loro, contadini e pastori analfabeti affamati dalla mafia che controlla la terra e l’acqua, pescatori depredati dalla pesca di frodo, madri senza speranza e bambini senza pane, darà vita a continue e importanti azioni civili: scioperi della fame, denunce, convegni, scuole, manifestazioni, marce (famosa quella per la pace del 1967 insieme a Peppino Impastato) e libri. Titoli come Banditi a Partinico, Fate presto (e bene) perché si muore, Inchiesta a Palermo, Processo all’articolo 4, Spreco, Chissà se i pesci piangono o Chi gioca solo, oltre naturalmente alle sue poesie, sono atti di denuncia contro lo Stato colluso che straziano il cuore, pietre miliari della lotta per la libertà e i diritti. Lo affianca da subito Franco Alasia, collaboratore fidatissimo; lo ispira Aldo Capitini, a cui viene accomunato con il soprannome di “Gandhi italiano”, per le tante battaglie combattute impugnando l’arma rivoluzionaria della nonviolenza.

Il diritto al lavoro e alla cultura

Lo osteggiano apertamente la politica democristiana, la polizia di Tambroni e la chiesa più reazionaria, ma dopo l’arresto del 1956 dall’estero arriva il sostegno di personalità illustri come Huxley, Bertrand Russell, Fromm, Piaget e Sartre, mentre in Italia si schierano con lui Nobbio, Carlo Levi, Zavattini, Sellerio, Silone e Piero Calamandrei, padre costituente che sarà suo difensore nel processo. Dolci viene arrestato per lo “sciopero alla rovescia”. Il principio è semplice:

se i lavoratori scioperano astenendosi dal lavoro, i disoccupati contestano lavorando e in centinaia si adoperano per rimettere in sesto una strada comunale abbandonata prima che la polizia li rastrelli.

In quegli anni, sempre a Trappeto, crea “Borgo di Dio” e poi il “Centro studi per la Piena occupazione” (fondato con i soldi del Premio Lenin per la pace), spazi dove avviare asili e scuole, dove ospitare convegni che aprono all’incontro, al fare politica dal basso, al cambiamento dell’individuo che acquista consapevolezza e conoscenza di bisogni e diritti e fa scricchiolare lo status quo.

La maieutica

Il suo approccio è il “metodo maieutico” che lo renderà famoso nel mondo. A partire dalla domanda che sollecita e risveglia, che comunica e trasmette, insieme, in cerchio (è lui ad inventare il “circle time” delle nostre scuole) si parla di territorio locale ma anche di arte, urbanistica, rispetto per la terra, economia, crescita personale… Negli anni Settanta e Ottanta, dal “Centro educativo” avviato a Mirto lo esporta in decine di laboratori in tutta Italia, lo racconta in molti saggi sull’esperienza educativa e nei documentari televisivi, mentre continua, assai prolifica, la produzione poetica e letteraria. Sono gli anni dei copiosi riconoscimenti: la laurea honoris causa a Berna (quella dell’università di Bologna arriverà solo nel 1996), i premi Sonning e Socrate dell’Università di Copenaghen, il premio Gandhi per la pace in India, l’archivio di tutto il suo materiale raccolto dalla Boston University, mentre l’Italia lo riconosce esclusivamente per le sue poesie.

Se oggi il suo Borgo è dismesso e la diga non appartiene più al Consorzio di contadini che la gestirono, fortissima e sempre più necessaria risuona la sua lezione di vita: ribellione, curiosità, dialogo, azione, attenzione all’altro, non violenza. Su tutto, pace.

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Stefania Chinzari
Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.

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