Crazy. La follia “instagrammabile“ dell’arte contemporanea

Una delle opere in esposizione alla mostra Crazy, al Chiostro del Bramante di Roma. Si tratta di Alfredo Pirri con Vetri specchianti/Reflecting Mirrors (Foto: courtesy Alfredo Pirri)

Abbiate cura di non dimenticare il cellulare, anche se non è più necessario mostrare all’entrata il GreenPass: Crazy, l’esposizione allestita al Chiostro del Bramante a Roma, aperta fino all’8 gennaio 2023, senza postare almeno una storia su Instagram si gode solo la metà, proprio come senza leccarsi le dita mangiando quelle patatine di un famoso tormentone pubblicitario. La metafora dal vago sapore sessuale non arriva a caso, visto quel compiacimento che pare emanare dall’ennesima curatela di Danilo Eccher nel gioiello rinascimentale di via della Pace, nel cuore della Capitale.

Sarebbe ora si coniasse una nuova definizione, accanto alla ormai abusata site-specific, perché molte delle installazioni (di cui 11, appunto, appositamente pensate per gli spazi di questa mostra) sono anche – e soprattutto – Instagram-Specific, pensate (almeno pare…) per finire sui profili social di migliaia di utenti.

 

 

 

Ad accogliere all’entrata del chiostro, tra le 16 colonne, specchi che oltre a riflettere il cielo sono fatti per essere rotti al passaggio dei visitatori: e chissà se Alfredo Pirri – autore di Passi, del 2001, già ammirata a lungo (dal 2011 al 2016) all’entrata della Galleria Nazionale di Arte Moderna – avrebbe mai immaginato che oltre a perdersi “tra i frammenti dell’immagine riflessa, dell’ego distrutto, dell’identità frantumata”, come si legge nel pannello, qualche avventore e avventrice si sarebbe perso nel fare a pezzi parte del pavimento con alcune palle di cemento lasciate alla base della colonna di plexiglas al centro del loggiato.

«Crazy è essere liberi di guardare da prospettive inedite», ma non di distruggere opere d’arte qualora non sia richiesto da eventuale performance annessa, aggiungeremmo noi.

Rassicurati fossero stati eliminati gli inattesi proiettili, incautamente abbandonati alla mercé del pubblico, è stato così possibile proseguire nel percorso pensato da Eccher e dai “suoi” artisti nelle 12 sale, scale, bookshop e sala delle Sibille; un cammino che vuole indagare le tante sfaccettature della follia e il suo legame con la creazione artistica. Ecco allora che Crazy è «stravolgere le prospettive», nel clown che si gonfia e sgonfia di Endgame, di Max Steicher, è «assecondare l’impulsivo creativo», nelle luminarie a intermittenza di Massimo Bartolini (Starless), è «lasciarsi avvolgere dall’euforia per riscoprire la propria unicità», nella stanza ricoperta di capelli dalle tinte impossibili dell’irlandese Hrafnhildur Arnardottir (Hypermania), è «sperimentare l’incanto delle proprie fragilità» negli otto lampadari di cera, creati da Petah Coyne, che scendono dal soffitto come piante di un giardino sospeso, ognuno dedicato a una donna (la scultrice Ruth Asawa, l’attivista Eleanor Roosevelt, l’artista Louise Bourgeois e Hannah Wilke, Ana Mendieta, l’antropologa Zora Neale Hurston, la poeta Sylvia Plath e la scrittrice Marilynne Robinson).

 

Danilo Eccher
Danilo Eccher, critico d’arte e curatore della mostra Crazy (Foto: Wikipedia)

 

Di sala in sala, si arriva a quella chiamata “delle Sibille”, accanto alla caffetteria del museo: affacciandosi, infatti, è possibile ammirare in tutta la sua bellezza (tanto più che è stato da poco restaurato e riportato all’originario splendore) l’affresco delle Sibille e Angeli, di oltre sei metri di larghezza, eseguito da Raffaello Sanzio agli inizi del Cinquecento. Uno di quei tanti periodi che hanno visto crescere la fama di Roma e che David Burns e Austin Young, duo artistico conosciuto come Fallen Fruit, hanno voluto omaggiare con la carta da parati che ricopre lo spazio. «Quando sono arrivati a Roma – spiega il pannello Kids – hanno gironzolato a lungo esplorando i quartieri del centro e fotografando tutto ciò che li aveva colpiti. Successivamente hanno estrapolato dei dettagli e li hanno inseriti in questa bellissima carta da parati». Malgrado l’assonanza con il ToiletPaper di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari, il cartello dedicato ai più piccoli ci ricorda che «creatività è guardarsi intorno con occhi nuovi».

 

  Guarda il video dell’allestimento di Crazy 

 

Il percorso ha il suo epilogo nel loggiato, in uno dei cinque neon realizzati da un artigiano per Alfredo Jaar: grandi didascalie colorate («Crazy è perdersi nella potenza evocativa delle parole», ci ammonisce il premuroso pannello) che trovano completezza nella frase più abusata di questo periodo pandemico, complice il settecentenario della morte di Dante Alighieri:

«E quindi uscimmo a riveder le stelle».

In questo tourbillon di forme, materiali e colori (e di suoni, a stare al comunicato stampa, nel quale si legge che «la musica originale di Carl Brave, Organica, è una composizione concepita e scritta per la mostra, pensata seguendo il ritmo e l’alternarsi delle opere, una traccia musicale per accompagnare il pubblico nell’esplorazione della follia del quotidiano, dentro e fuori dal Chiostro del Bramante». Brano, tuttavia, non pervenuto durante la visita dedicata alla stampa), due opere arrivano dal passato a segnare la differenza: Topoestesia – itinerario programmato, di Gianni Colombo, del 1970. Come in altre opere, Colombo, protagonista dell’arte cinetica e programmata che si è sviluppata a livello internazionale nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, attraverso l’uso del movimento, della luce e dello spazio, ha concepito un ambiente che, agendo attivamente sulla percezione fisica e sensoriale dello spettatore, testimonia la possibilità di fare esperienza e di conoscere il mondo. Lo spazio, infatti, è sempre partecipato e l’esperienza è sempre esperienza della – e nella – partecipazione.

 

 

E c’è poi Ambiente spaziale in Documenta IV, a Kassel, 1968/2022 di Lucio Fontana, che da solo vale tutti i 15 euro del biglietto (che diventano 18 nel fine settimana); si tratta di una sala rettangolare completamente bianca, al cui centro campeggia un pannello in gesso con il celeberrimo Taglio.

«Quando io mi siedo davanti a uno dei miei tagli, a contemplarlo, provo all’improvviso una grande distensione dello spirito, mi sento un uomo liberato dalla schiavitù della materia, un uomo che appartiene alla vastità del presente e del futuro», ebbe a scrivere il maestro dello Spazialismo.

Entrare e camminare nel bianco accecante fino allo squarcio è davvero un’esperienza di grande impatto emotivo che abbandona lo spettatore in un ambiente distopico e disturbante che forse solo Stanley Kubrick aveva saputo descrivere altrettanto bene, in 2001 Odissea nello spazio. Guarda caso, si tratta anche dell’unica installazione che è inutile fotografare: quel bianco, quel taglio, quelle pareti spoglie sono quanto di meno “instagrammabile” si possa immaginare, a meno di non impallare la ferita col proprio faccione in primo piano.

 

 

 

Caso ha voluto che l’inaugurazione di Crazy coincidesse con la data di nascita di Lucio Fontana, nato in Argentina il 19 febbraio 1899. E a dire il vero, altre opere del pittore sarebbero state più che gradite. Per questo, si guarda con impazienza al 12 marzo, quando alla Villa dei Capolavori a Mamiano di Traversetolo, a Parma, la Fondazione Magnani-Rocca esporrà circa 50 opere che seguiranno narrativamente l’intervista di Carla Lonzi a Fontana, realizzata alla fine degli anni Sessanta e raccolta nel celebre volume Autoritratti, un percorso antologico costituito da lavori che rappresentano i momenti salienti della ricerca fontaniana:

«La scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito, allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita, un’x che, per me, è la base di tutta l’arte contemporanea. Sennò continua a dire che l’è un büs, e ciao».

Con buona pace della follia all’epoca dei reel e delle stories.

 

Saperenetwork è...

Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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