Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere
Dal 4 maggio al 18 settembre, a Roma, il MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo ospita la mostra dedicata al grande fotografo. Oltre 200 immagini tra scatti celebri, altri poco noti o completamente inediti. Un percorso fra arte e testimonianza sociale. Da non perdere
Lo scatto migliore? «È sempre il secondo o il terzo», parola di Gianni Berengo Gardin che a Roma per presentare la sua prima personale al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere, si è raccontato alla stampa con la generosità con cui ha abituato da sempre i giornalisti: 92 anni di gentilezza e vivacità per il fotografo nato in Liguria ma di origini veneziane che si è prestato a rispondere a domande sulla guerra in corso e l’importanza della fotografia durante i conflitti armati e il valore del digitale nell’era moderna. Sempre attratto da tematiche sociali, come testimonia anche la retrospettiva curata da Alessandra Mauro e Margherita Guccione, Berengo Gardin non è mai stato al fronte, pur riconoscendo la rilevanza del lavoro di tante colleghe e colleghi che raccontano con le immagini la guerra, troppo spesso contraffatte così da essere utilizzate dalla propaganda.
Le foto “taroccate”, infatti, continuano a rappresentare il grande cruccio del fotografo:
«Le foto lavorate vanno dichiarate, altrimenti è una truffa – dice Berengo Gardin – perché Photoshop cambia la realtà. La foto così diventa un’immagine: non è più la realtà che hai visto ma quella che hai costruito».
È il motivo per cui, dopo quasi 70 anni di carriera, è ancora fedele alla pellicola: «Non sono un credente – prosegue – ma credo fermamente nella pellicola. Le sono fedele non perché sia meglio del digitale a livello tecnico, ma perché il digitale cambia la mentalità del fotografo. A Milano, qualche anno fa, c’era una grande pubblicità di una macchina fotografica, il cui claim era: scatta non pensare. Ecco io dico il contrario: prima pensa e poi scatta, ma non è obbligatorio scattare sempre. Uno che scatta fotografie non è un fotografo. Quello del fotografo è un mestiere per cui bisogna studiare; bisogna applicarsi per capire le vere necessità della fotografia».
E a inoltrarsi nei corridoi dell’esposizione, costeggiando le pareti costellate delle 200 fotografie così come si costeggiassero i palazzi del Canal Grande, riprodotto dall’allestimento espositivo opera dell’architetta Benedetta Marinucci, del team MAXXI, ci si inoltra nel suo modo di intendere il mestiere di artigiano che con le sue fotografie racconta delle storie, documentando fedelmente quello che vede; uomini e donne, protagonisti dei suoi scatti, sono sempre calati in uno spazio sociale, spesso attraverso il lavoro che fanno; dettagli fuori contesto o genuinamente ironici danno il là a storie tutt’altro che banali. Tirate fuori dal suo immenso archivio, grazie al lavoro di Susanna Berengo Gardin, restituiscono le tante emozioni di una vita di impegno su mille fronti del sociale, «Un viaggio nel tempo e nello spazio che racconta meglio di tanta saggistica la storia del lavoro italiano, le nostre tante città, le evoluzioni del costume», sottolinea accanto a lui la presidente del MAXXI Giovanna Melandri.
Fotografia di racconto e di denuncia, la sua, tanto da aver trattato con rara sensibilità, pur senza indorare la realtà, la vita negli istituti psichiatrici, contribuendo a dar vita a quel movimento d’opinione che ha portato alla Legge Basaglia, la legge 180 per la chiusura dei manicomi, nei campi rom, nei borghi e nelle grandi città, prima fra tutte la sua città d’elezione, Venezia.
È qui che Berengo Gardin ha raccontato gli angoli più intimi e poetici, le contestazioni del Sessantotto, gli stupri della Laguna a opera delle Grandi Navi.
Dal 2012 al 2014, realizza infatti, nel consueto “bianco e nero rigoroso, sincero e perfetto di sempre”, immagini che testimoniano il quotidiano usurpante passaggio di mastodonti da crociera, raccolte poi nel volume Venezia e le Grandi Navi (edito da ContrastoBook).
E poi la Milano delle industrie, delle lotte operaie e degli intellettuali, L’Aquila del terremoto, la Roma del Vaticano (che meraviglia lo scatto del cappello del prete poggiato a terra, su una ventiquattrore, accanto a un piede “birichino” di donna, che gioca con la scarpa in mezzo alla folla) e del cantiere del MAXXI («Ambivo di fare una mostra qua perché ho visto nascere questo posto – ha confessato – All’epoca montavo sui tralicci e sul tetto per fotografare e vederlo finito e operante è stata una cosa emozionante»), la Firenze delle sue architetture. Splendidi i ritratti del Maestro, da Peggy Guggenheim, Mario Soldati, Dino Buzzati, Ettore Sotsass, Gio Ponti, a Ugo Mulas e Dario Fo; i celebri reportage dai luoghi del lavoro realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e, soprattutto, Olivetti (con cui ha collaborato per 15 anni). «Posso definirmi comunista fuori dalle righe, non tanto perché ho letto i testi importanti del comunismo, ma perché ho lavorato in fabbrica con gli operai, capivo i loro problemi», ha detto nell’intervista rilasciata alla curatrice Margherita Guccione.
L’immaginario canale veneziano è racchiuso da due grandi pareti: una dedicata allo studio di Milano, per Berengo Gardin luogo di riflessione e di elaborazione, che appare come una sorta di camera delle meraviglie in cui emergono anche aspetti privati e meno noti della sua personalità e un’altra dedicata ai libri, destinazione principale e prediletta del suo lavoro, una sorta di gigantesca libreria che ripercorre le oltre 250 pubblicazioni realizzate nel corso della sua lunga carriera, collaborando con autori quali Gabriele Basilico, Luciano D’Alessandro, Ferdinando Scianna, Renzo Piano e anche con Touring Club Italiano e con De Agostini. Fondamentale, inoltre, la collaborazione con il settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio, dove tra il 1954 e il 1965 pubblica oltre 260 fotografie e di cui scrive:
«Nella mia vita ho incontrato molti importanti intellettuali italiani che sono diventati amici e hanno influenzato moltissimo la mia fotografia. Il più importante è stato Mario Pannunzio»
La mostra, che vuole omaggiare non solo Gianni Berengo Gardin e la coerenza della sua visione, ma anche il volume omonimo di Cesare Colombo (presente in una teca all’interno dell’esposizione) degli anni Settanta con cui il collega realizzò un compendio delle immagini scattate fino ad allora, è stata realizzata in collaborazione con Contrasto, Fondazione Forma per la Fotografia e Archivio Gianni Berengo Gardin. La grafica di mostra è opera di Alberto Berengo Gardin.
Un percorso che è un viaggio nella storia d’Italia e degli italiani guidato da un artigiano della fotografia capace di quel sublime che solo il grande artista raggiunge. Da non perdere.
Saperenetwork è...
- Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.
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