The Mountain’s Eyes, cosa vedono le montagne
Macchine fotografiche costruite con materiali di recupero registreranno paesaggio e luce per 480 ore nella valle himalayana dell’Annapurna, in Nepal. Il nuovo progetto artistico in immersione nella natura di Roberto Ghezzi
Cosa vedrebbero le montagne più alte della terra, se avessero occhi? È una delle domande a cui sta provando a rispondere l’artista Roberto Ghezzi nella sua spedizione in Himalaya, tra le cime più alte del pianeta. Durante la nuova missione che si sta svolgendo in questi giorni, e che terminerà entro la fine di novembre, Ghezzi sta sotterrando lungo il percorso che da Pokhara (Nepal) lo condurrà verso il campo base del monte Annapurna (8091mt slm), una serie di piccole macchine fotografiche da lui stesso costruite con materiale di recupero, come lattine di bibite usate, alcune raccolte in loco. Si chiama Mountain’s Eyes ed è il nuovo progetto dell’artista toscano, come sempre a stretto contatto con la natura e in relazione con il paesaggio, campo di ricerca che caratterizza un percorso d’arte e vita. Dapprima indagato attraverso la pura pittura, negli ultimi anni esplorato attraverso immersioni nell’ambiente, che provano a restituirne le specificità e l’essenza. Nei primi anni Duemila sono nate così le Naturografie©, opere letteralmente scritte dalla natura che l’artista lascia in terra o acqua e ritira nel momento in cui ritiene che, attraverso i sedimenti raccolti, ne raccontino in qualche modo l’aspetto.
Ghezzi ha legato il suo lavoro a studi sull’ecosistema e sulla biologia in parchi e riserve naturali di tutti i continenti (Alaska, Islanda, Sud Africa, Tunisia, Norvegia, Patagonia, Croazia, Danimarca, Groenlandia, Svalbard). In Italia ha realizzato numerosi progetti di ricerca in ogni regione e tipologia di ambiente, collaborando con i più importanti istituti di ricerca tra cui CNR ISMAR, CNR IOM, CNR ISP, Arpa Umbria e Arpa Lazio, oltre che con associazioni come Greenpeace, WWF e Legambiente.
Il battito di ciglia della montagna
In questi giorni Ghezzi dunque dedica la sua ricerca alle montagne dell’Himalaya. Attraverso lo stesso approccio teso al dialogo con gli ambienti studiati, ma utilizzando tecniche quali la fotografia stenopeica e la stampa di monotipi senza l’utilizzo del torchio. Nel progetto di Ghezzi la montagna rappresenta un’entità misteriosa, immutabile, custode di una saggezza millenaria. L’artista, attraverso la sua ricerca, donerà occhi alla montagna per restituirne lo sguardo più autentico.
Durante la salita l’artista studierà come di consueto il paesaggio, mediante osservazioni, fotografie e disegni. In aggiunta, costruirà delle semplici macchine fotografiche artigianali a foro stenopeico, della forma e dimensioni di una comune lattina, che verranno sotterrate lungo le pareti delle montagne della valle, lasciando scoperto soltanto il foro per l’entrata della luce (la “pupilla” della montagna), come dei veri e propri occhi. Mediante tali dispositivi la luce, entrando giorno dopo giorno attraverso il piccolo foro nelle lattine, impressionerà le carte fotografiche al loro interno, restituendo in una sola immagine più giorni di tempo (con le striature di luce create dal sole nel suo apparente percorso dall’alba al tramonto), che, nell’immaginario artistico alla base del concetto della ricerca di Ghezzi, rappresenterebbero un battito di ciglia della montagna lungo 480 ore.
Il progetto, a cura di Gabriele Salvaterra, in partenariato con l’Università di Torino, Dipartimento di Scienze della Terra, si avvale della supervisione scientifica di Rodolfo Cafosi, Chiara Montomoli e Salvatore Iaccarino, che scriveranno dei testi scientifici sui luoghi attraversati, testi che accompagneranno la produzione di Ghezzi esito della residenza. La spedizione vede la collaborazione logistica della guida sherpa Suraj Gurung, il sostegno di Phoresta ETS e il supporto della galleria MCube di Kathmandu che ospiterà, al termine della residenza, una mostra personale con i primi risultati della ricerca.
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