Legàmi tra i balconi
L’isolamento della quarantena ha evidenziato l’importanza dei balconi nella nostra società: zone intermedie tra pubblico e privato, luoghi di sostegno, ma anche logge da cui partono facili denunce. Nel 1981 Maria Lai utilizzò balconi e finestre per legare il paese di Ulassai estetizzando la struttura del tessuto sociale e il rapporto con il territorio. Fu la prima operazione di Arte Relazionale nella storia dell’arte
I primi protagonisti della quarantena italiana sono stati i balconi e i terrazzi, quei piccoli pezzetti d’aria ancora disponibili, occhi sulla vita reale contrapposti alla finzione dei contatti social. In tutto il mondo sono girate le commoventi immagini di un popolo di artisti con il cuore gonfio di poesia e i polmoni pieni di melodie. Strumentisti più o meno dilettanti e cantanti di ogni genere si sono affacciati ai balconi per giorni, puntuali alle 18.00, per farsi coraggio a vicenda, offrendo al mondo la conferma dell’immagine stereotipata e un po’ romanzata dell’italiano: un popolo forse un po’ disorganizzato negli aspetti amministrativi, ma sicuramente capace di dare il meglio di sé dal punto di vista creativo.
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La Sora ‘Mpiccina
Passate le prime settimane le orchestre condominiali e i Pavarotti improvvisati hanno lasciato il posto a un’altra tipica immagine nostrana: la comare, quella che a Roma è chiamata “sora ‘mpiccina” perché si impiccia di tutto e conosce i fatti privati di tutto il vicinato. I cori dell’Inno di Mameli si sono così trasformati in cori di denunce e il dito sulle corde del violino è diventato dito inquisitore puntato verso l’ignaro passante che osa riposarsi un attimo su una panchina o indugia in una chiacchiera di saluto.
#Flashmob musicale, #FratellidItalia sui balconi di #Caccamo in #Sicilia: la cantante Federica Neglia accompagnata dal suo papà, dai fratelli musicisti e da tutto il vicinato #innodimameli #andratuttobene #coronavirus #iorestoacasa @TgrSicilia pic.twitter.com/JMz9SMjVM8
— Radio1 in Viva Voce (@Radio1VivaVoce) March 14, 2020
I balconi e le finestre nel Mediterraneo sono territori intermedi tra il pubblico e il privato e hanno sicuramente un ruolo importante nel tessuto sociale. Lo sapeva bene Maria Lai, quando nel 1981 tessendo insieme un paese, realizzò la prima opera di Arte Relazionale nella storia dell’arte: Legarsi alla Montagna. Protagoniste nella realizzazione dell’opera furono le “sore ‘mpiccine” sarde, detentrici di un sapere orale creato da un sapiente intreccio tra leggende e pettegolezzi.
Lasciate che i fiori seppelliscano i morti
Tutto ebbe inizio da una prevedibile domanda, quella che il sindaco di un piccolo paese nell’entroterra sardo rivolse all’artista locale notando la sua crescente fama: un monumento ai caduti.
Qualcuno diventato poi molto famoso un giorno disse: “lasciate che i morti seppelliscano i morti” e insieme a filosofi e guru di vario tipo probabilmente anche Maria Lai quel giorno si interrogò sul senso di questa frase.
È un invito che ha mosso sicuramente la riflessione di molti in questo periodo in cui la morte ci è stata così vicina e, spesso, non abbiamo potuto salutare i nostri cari. Frase che ha aperto profonde riflessioni sul valore del rito di passaggio del funerale e sulle modalità con cui ogni cultura si rapporta alla morte. Ognuno arriva alla propria morte con il bagaglio di esperienze mosse dal personale libero arbitrio. Eppure tutte le azioni che formano il corredo per l’aldilà possono essere messe in atto solo nel presente.
Maria Lai aveva colto benissimo il senso delle scelte che possono farsi solo in vita. Così quando il sindaco Antioco Podda le chiese il monumento per i caduti in guerra, rispose di no.
Non per mancanza di rispetto verso giovani che erano stati mandati a morire per ragioni probabilmente a loro ignote, per loro c’era già la potenza dei “mille papaveri rossi” cantati da De André.
L’artista sarda scelse di non costruire un’opera morta per chi era morto in guerra, ma di celebrare attraverso un’opera viva, chi sceglieva di vivere in pace. Non poteva essere un monumento affidato alla statica presenza del marmo o della pietra, né un oggetto d’arte che sarebbe rimasto ai posteri. Un’opera capace di celebrare la vita doveva essere un’esperienza.
I balconi mormorano
Non fu facile per Maria Lai coinvolgere gli abitanti di Ulassai nella realizzazione dell’opera. Le discussioni durarono un anno e mezzo, ma la testarda “capretta” sarda, come amava definirsi l’artista ricordando il nomignolo che le dava suo padre, non si arrese e seppe trovare i giusti compromessi ascoltando le voci delle diverse famiglie.
Si sa che nei piccoli paesi la “gente mormora” e il paese di Ulassai ai piedi del Gennargentu nell’entroterra sardo, sapeva certamente rispettare l’antico adagio. I mormorii, com’è loro dovere, rimbalzavano tra porte e balconi, tra finestre e comari trasformando ipotesi in verità, voci in denunce. Proprio per questo, per raccontare l’esperienza faticosa e laboriosa, mossa da costante consapevolezza, per raggiungere la pace tra i vivi, l’artista di Ulassai scelse di partire dai balconi del piccolo paese e dalle sue finestre che avrebbe legato tra loro con un nastro.
Guarda il video su Maria Lai
Le famiglie in buoni rapporti avrebbero legato ai nastri i tradizionali “pani pintau”, mentre quelle tra cui non correva buon sangue avrebbero segnato, utilizzando gli stessi nastri, il confine del rispetto reciproco e la “regola del tenere le distanze”.
Un nastro azzurro
Il 6 settembre del 1981 arrivò ad Ulassai un grande rotolo di stoffa azzurra. Gli abitanti del paese furono chiamati a tagliarlo in tante strisce da cui ottennero 27 chilometri di nastro.
Il giorno successivo i nastri furono distribuiti alla popolazione e nel terzo giorno tutte le case di Ulassai furono legate tra loro. La scelta del nastro azzurro raccoglieva il potere orale del popolo, nella consapevolezza che le voci non sono solo mormorii e pettegolezzi, ma hanno anche il dovere di tramandare un sapere identitario.
Si racconta ad Ulassai la storia della “rutta de is’antigus”, cioè della “grotta degli antichi”. La leggenda risale a un fatto realmente accaduto quando nel 1861 un costone del Monte Gedili, del Massiccio del Gennargentu, si staccò distruggendo una casa. Nell’incidente si salvò una bambina ritrovata con un nastro azzurro tra le mani. Si pensò subito al miracolo e negli anni il racconto si andò arricchendo di dettagli trasformandosi in una leggenda tramandata oralmente.
Sicuramente la leggenda racconta la relazione tra il popolo di Ulassai e il grande Massiccio del Gennargentu che sa essere protezione e minaccia al tempo stesso. Il nastro azzurro nelle mani della bambina innocente assurge a simbolo di protezione nel rapporto con la natura.
Maria Lai raccoglie questo simbolo e lo lascia nelle mani degli abitanti di Ulassai con un gesto potente carico del riconoscimento del valore del libero arbitrio nelle scelte di vita in relazione al proprio ambiente. Al crepuscolo l’ultima estremità del nastro fu affidata a degli scalatori che risalendo parte della montagna lanciarono il nastro con un arpione verso un picco. Il paese fu così legato alla montagna.
Legarsi a un futuro di pace
Maria Lai è l’artista del tessere, la piccola donna sarda che ha saputo mostrare al mondo, riprendendo i lavori tradizionali, il potere simbolico dei fili, degli orditi e dei tessuti.
Il filo è ciò che lega e collega il passato al presente e al futuro. Ma è solo nell’impermanenza del gesto del presente che si crea la tessitura. Raccontando il tessuto sociale di Ulassai e il legame del popolo al territorio Maria Lai mostra la trama che sostiene ogni agglomerato umano, una trama fatta dall’intreccio costante tra passato, presente e futuro.
Il nastro è collegato al passato attraverso la leggenda ed esprime il valore della narrazione orale con cui un popolo si definisce. Attraverso i gesti dell’annodare, creati dall’intreccio di un “prima” e un “dopo” del nastro, è estetizzato il presente, momento in cui gli abitanti di Ulassai creano l’opera. Lanciando un’estremità del nastro verso la montagna si lascia andare lo scorrere del tempo verso il futuro.
La grande opera di arte relazionale Legarsi alla Montagna capovolge così la richiesta iniziale del sindaco portando il paese a muoversi verso la costruzione di convivenze pacifiche, perché è da queste che si parte per evitare di dover costruire monumenti ai caduti.
Guarda il video su “Legarsi alla Montagna” di Maria Lai
Saperenetwork è...
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Dafne Crocella è antropologa e curatrice di mostre d’arte contemporanea. Dal 2010 è rappresentante italiana del Movimento Internazionale di Slow Art con cui ha guidato percorsi di mindfulness in musei e gallerie, carceri e scuole collaborando in diversi progetti. Insegnante di yoga kundalini ha incentrato il suo lavoro sulle relazioni tra creatività e fisicità, arte e yoga.
Da sempre attiva su tematiche ambientali e diritti umani, convinta che il rispetto del proprio essere e del Pianeta passi anche dalla conoscenza, ha sviluppato il progetto di Critica d’Arte Popolare, come stimolo e strumento per una riflessione attiva e consapevole tra essere umano, contemporaneità e territorio. È ideatrice e curatrice di ArtPlatform.it, piattaforma d’incontro tra creativi randagi.