Città per città, l’Italia si mobilita per la pace. A colloquio con Mao Valpiana
La società civile oggi scende in piazza, a Roma e non solo, per fermare il conflitto in Ucraina e riaffermare le ragioni del dialogo. Ma quali le radici di questo conflitto? E quali le chance di questa diplomazia dal basso? Ne abbiamo parlato con il presidente del Movimento Nonviolento
Condannare l’attacco militare della Federazione Russa in Ucraina e fermare immediatamente le ostilità. Sono soltanto alcune delle motivazioni alla base della mobilitazione convocata dalla Rete Italiana Pace e Disarmo oggi, 26 febbraio, in tutta Italia e in particolare a Roma, dove l’appuntamento è alle 11.00 in piazza Santi Apostoli. In occasione di questo appuntamento, che chiama in causa tutta la società civile, abbiamo raggiunto Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento.
Quale è il principale obiettivo della manifestazione?
Il senso fondamentale è che si muove un’espressione e una volontà di pace da parte di una larghissima parte dell’opinione pubblica. Come ho scritto in un mio articolo, «la pace è una cosa troppo importante per lasciarla solo nelle mani dei pacifisti». Infatti, chi si muove fortunatamente è la società civile: lavoratrici, lavoratori, studenti, pezzi del mondo della cultura, della politica… Dove hanno fallito le diplomazie dei governi, si muovono ora le città. È un sogno che aveva avanzato già il sindaco Giorgio La Pira, noto sindaco di Firenze negli anni Sessanta, che sosteneva: la pace si può fare una città per volta. Quindi in questi giorni sono le città italiane che si propongono come principali attori della diplomazia dal basso, una diplomazia popolare. Stiamo esprimendo solidarietà alle città colpite dall’aggressione militare, ma anche alle città che si ribellano all’aggressione militare. Quindi le città italiane esprimono solidarietà con Kiev e con quella parte di cittadini di Mosca, San Pietroburgo, e della Russia, più in generale, contrarie alla scelta folle e scellerata dell’aggressione militare armata. Una manifestazione allora per la pace, per la diplomazia e la trattativa dal basso che viene espressa dalle città.
Proprio perché le vittime principali delle guerre moderne sono i civili, è giusto, doveroso, sacrosanto che siano proprio loro ad opporsi alla guerra.
Crisi della democrazia significa anche crisi della cultura della pace?
Sì, perché la pace è un concetto positivo, costruttivo. Gandhi la chiamava proprio così: “Programma costruttivo della pace”, che può essere espresso pienamente solo in condizioni di democrazia, dove è prevista la partecipazione, la cooperazione, dove ciascuno può esprimere la propria volontà, il proprio orientamento. Dove tutti hanno il diritto di parola. La pace è infatti un concetto corale. Aldo Capitini, fondatore del movimento nonviolento, e dunque del pacifismo italiano, cercava di andare addirittura oltre la democrazia con il concetto di omnicrazia, cioè il potere di tutti. Ecco, solo con il potere di tutti si può esprimere pienamente il concetto di pace. Non un potere concentrato in poche mani, nel governo, che può invece anche guidare e comandare l’intervento armato, ma solo in un concetto di democrazia piena, di omnicrazia, si può sviluppare il concetto di cultura della pace. E quindi come dicevo prima, solo con una mobilitazione di popolo si può costruire la pace, territorio per territorio, città per città, Stato per Stato.
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Dopo il conflitto nei Balcani, la guerra irrompe in Europa. C’è il rischio di ritornare di colpo al ‘900?
Effettivamente dopo il crollo del Muro di Berlino, avvenuto nel 1989, si sperava nella possibilità di voltare pagina, di scrivere un nuovo capitolo della storia. Lo diceva anche padre Ernesto Balducci: «Forse finisce la storia», nel senso di fine dei conflitti tra gli Stati. Purtroppo quel sogno si è trasformato in un incubo: dall’Ottantanove si sono aperti subito due scenari di guerra: Iraq, prima guerra del Golfo, e la guerra dei Balcani, con la dissoluzione della ex Jugoslavia. Quindi dopo la vergogna dell’assedio di Sarajevo, una guerra nel cuore dell’Europa, nel 2022 ci troviamo di fronte a un nuovo assedio, quello di Kiev, parte del cuore europeo.
Questo significa che non siamo stati capaci di cogliere la novità dello scenario del 1989.
Eravamo dinanzi non solo alla dissoluzione dell’Unione sovietica, ma anche al Patto di Varsavia. Immaginavamo e abbiamo proposto, come movimento per la pace, che anche l’Alleanza Atlantica, cioè la Nato, cambiasse completamente natura. L’Europa doveva cogliere quell’occasione per diventare una potenza di pace, quindi in grado di smilitarizzare, ridurre i bilanci militari, per aumentare il concetto di sicurezza e di solidarietà, per creare delle zone di neutralità attiva. Questa era la proposta che veniva dai movimenti per la pace di tutti i Paesi europei, e invece abbiamo trovato delle porte chiuse da parte della politica dei singoli Stati.
In questi decenni l’Europa non è stata in grado di costruirsi come soggetto politico comune.
Non è stata in grado di parlare con una voce unica, non è stata in grado di darsi una unica politica europea di pace. È stata invece una corsa al far prevalere i singoli governi e le singole politiche nazionali, in alcuni casi addirittura sovraniste. Una grande occasione persa alla fine del secolo scorso, e oggi ancora ci troviamo, nel nuovo millennio, ad affrontare il problema della guerra. Fino a che non risolveremo la questione centrale, decisiva, che è quella militare, se non saremo capaci di superare questa questione, pensando alla politica estera, e quindi alla politica di relazione, sia con la Russia sia con gli Stati Uniti, costruendo una Europa come entità politica autonoma, indipendente e neutrale, non usciremo dalla folle spirale di violenza bellica che ci sta conducendo sull’orlo del baratro.
È la diplomazia la vera e sola arma per scongiurare l’escalation?
La diplomazia è certamente centrale e decisiva, tant’è vero che le richieste che provengono da più parti è che si tacciano le armi e si riprendano i tavoli delle trattative. Anche in queste ultimissime ore, da parte dell’Ucraina, o meglio dal potere ucraino, si sta chiedendo alla Russia di fermarsi, di trattare. Di trovarsi in un luogo terzo per poter riprendere le trattative. E l’Europa sta premendo in questa direzione. Ma questo è quello che si fa di fronte all’incendio che è scoppiato. In questo momento non si può agire se non come pompieri per cercar di spegnere l’incendio, ma questa non è ancora la costruzione della pace, che dovrà avvenire soprattutto negli anni futuri, scegliendo la strada principale: non preparando le guerre prossime venture. Intendo dire che la guerra di oggi non è scoppiata come un fulmine a ciel sereno. Non è come un terremoto che arriva all’improvviso. La guerra è stata preparata, organizzata, finanziata. Gli strumenti bellici che vediamo: carri armati, missili, bombe… non sono stati creati ieri. Sono anni che vengono preparati. E molti paesi europei: Francia e Germania in primis, ma anche l’Italia, sono i principali venditori di armi sia all’Ucraina che alla Russia.
Noi quindi abbiamo contribuito a preparare questa guerra. Ora l’unica alternativa, l’unica strada possibile da percorrere è creare le condizioni affinché avvenga la pace.
Condizioni politiche in cui si lavora per la solidarietà, la sicurezza reciproca, per il progresso e per le azioni comuni di cui abbiamo necessaria urgenza in tutto il suolo europeo. Pensiamo alle politiche da mettere in campo per la transizione energetica, per battere il vero grande nemico dei prossimi anni rappresentato dalle variazioni climatiche, dall’emissione di CO2. L’Europa dovrebbe mettere in campo tutte le proprie forze, tutte le proprie ricchezze e intelligenze per combattere il vero nemico che è il disastro ecologico che ci sta attendendo, come dicono tutti gli scienziati del mondo, da qui ai prossimi trenta-quaranta anni.
Così anziché preparare la guerra, come fino ad ora abbiamo fatto, soprattutto attraverso l’aumento dei bilanci e spese militari globali nel nostro continente, le forze principali devono essere spese in una direzione assolutamente contraria, che è quella di una forte unità politica per la transizione ecologica. La vera diplomazia che preparerà la pace.
In questi giorni vengono alla mente le parole di Alex Langer: “Cambiare la vita di fronte alla guerra”. Quanto sono attuali?
Alexander Langer è stato per tutti noi un profeta e una guida politica del movimento pacifista e ambientalista, non solo italiano ma anche europeo. Già negli anni Ottanta e Novanta, le sue analisi erano tese alla creazione di una politica per la pace e di una politica per la nonviolenza. È stato proprio qui, nella mia città, a Verona, in un’Arena di pace e disarmo che Alex ha lanciato questo slogan: “Contro la guerra cambiare la vita”. Significa sostanzialmente che è la politica attuale che crea le condizioni di guerra. Una politica basata sul confronto, sulla competizione, forza, scontro. E quindi sull’accumulo delle armi, dei bilanci militari e della forza di potenza armata. Alex diceva che per contrastare tutto questo bisogna cambiare completamente politica e quindi dobbiamo cambiare stili di vita e orizzonte mentale. Dobbiamo allora immaginare una vita diversa basata sull’aiuto reciproco, sulla comprensione, sulla compassione, sulla cooperazione, sulla solidarietà. Così saranno possibili politiche non militari, civili, non armate, non violente. Il suo messaggio è attualissimo. Alex diceva anche:
«Meglio un anno di trattative che un solo giorno di guerra».
Abbiamo già vissuto due giorni di guerra in Ucraina, e invece dobbiamo tornare alla politica del dialogo e delle trattative, altrimenti l’alternativa è la sconfitta dell’Europa, che politicamente sta dimostrando di essere distrutta, che non ha voce, che non c’è. Un’Europa non capace di dare una direzione a questa crisi. È fondamentale allora cambiare il modo di pensare, poiché è l’unica strada per ritrovare la propria identità europea, con i fondamenti e l’anima. L’Europa è stata concepita a Ventotene con un documento che la immaginava unita, solidale, e sostanzialmente di pace. Abbiamo tradito quelle origini e questa guerra ci mette di fronte alla nostra responsabilità di tornare al progetto unitario, di pace, come sosteneva La Pira, dall’Atlantico agli Urali. E comprende quindi anche le zone dell’Ucraina e della Russia oggi colpite dalla guerra.
Il grande progetto di pace che fu di Altiero Spinelli, di Ventotene, di La Pira, di Alexander Lager è nelle nostre mani, e dobbiamo essere noi i protagonisti. Attraverso il movimento nonviolento possiamo costruire un’Europa di pace.
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Saperenetwork è...
- Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.
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