I conflitti sono risorse, per disimparare la guerra. Intervista a Marianella Sclavi
L’etnologa e antropologa è tra i massimi esperti della gestione creativa dei conflitti, approccio pragmatico che valorizza interessi, criticità e punti di vista per evitare le polarizzazioni. Sempre più importante a livello educativo, ma anche in crisi geopolitiche come quella in corso tra Russia e Ucraina
La guerra non è mai fatale e necessaria, rivendicano i movimenti per la pace e il disarmo. E ricerche nei campi delle scienze politiche, della psicologia sociale e della negoziazione tra gruppi gli danno ragione. Da quasi quarant’anni, infatti, è stato elaborato un approccio ai conflitti definito “costruttivo”.
Il testo fondativo che ha reso questo tema un campo di studi autonomo è uscito nel 1981 negli Stati Uniti: Getting to Yes. Negotiating agreement without giving in, di Robert Fisher e William Ury, pubblicato in Italia ben 14 anni dopo (L’arte del negoziato, Mondadori 1995).
Entrambi docenti alla Harvard Law School, Fisher e Ury hanno creato nella prestigiosa università un corso sulla negoziazione dei conflitti. Sempre negli Stati Uniti, negli anni ’90 nasce il Consensus Building Institute, Ong fondata nel 1993 a Cambridge, nel Massachussetts, per sviluppare teorie e pratiche nella gestione dei conflitti, con programmi educativi come Costruire una pace (Workable Peace) pensato per formare insegnanti e studenti. Una visione del conflitto e delle parti in campo che arricchisca anziché semplificare, articoli anziché polarizzare.
L’obiettivo è riuscire a costruire terreni comuni persino lì dove la distanza sembra incolmabile. Per questo motivo, una gestione dei conflitti, sia micro che macro, è da coltivare, soprattutto nelle giovani generazioni.
Anni fa, l’approccio della gestione costruttiva dei conflitti è stato proposto in alcune scuole superiori. Una delle persone che lo ha introdotto, e che da anni diffonde e pratica in Italia questa metodologia e cultura, è Marianella Sclavi, antropologa ed etnologa. Suo è il noto testo Arte di ascoltare e mondi possibili (Bruno Mondadori, 2003), tanto corposo quanto leggero nella lettura, grazie ai molti esempi pratici e all’ironia con cui è scritto. Ironia che è, secondo Sclavi, essa stessa un prezioso strumento operativo perché ci aiuta ad abbandonare la rigidità delle nostre interpretazioni dell’altro e del mondo. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza.
Come si insegna a ragazze e ragazzi nelle scuole a gestire un conflitto in modo costruttivo?
Si comincia a lasciar parlare i ragazzi dei conflitti che stanno vivendo. Bisogna creare un ambiente, un clima e un contesto adatti, magari facendoli lavorare in piccoli gruppi, che è il modo in cui sono più sciolti, e possono trovare il coraggio di scambiarsi situazioni personali di conflittualità. A partire dalle loro esperienze, chi conduce il laboratorio li accompagna a vedere come queste storie si sviluppano, quali sono le dinamiche che mettono in atto, che sono diverse a seconda di chi sono loro, le loro famiglie, i loro amici, eccetera.
Visualizza questo post su Instagram
Poi si arriva a conoscere quali sono le dinamiche della gestione creativa dei conflitti: una serie di tecniche che, applicate anche ai casi che loro stanno vivendo, consentono di esplorare possibili sviluppi di tipo diverso.
A volte emerge che ragazze e ragazzi stanno già mettendo in atto una gestione creativa del conflitto, che vuol dire, quando c’è una tensione o un conflitto, anziché far finta che non esista, parlare d’altro o sentirsi a disagio nel parlarne, trovare il modo, invece, di parlarne e di guardare il conflitto non solo come una cosa negativa e spiacevole ma anche come un’occasione per vedere cose che avevamo ignorato e trascurato e capire i diversi punti di vista.
Concretamente, in che modo si svolge l’attività?
A partire dai loro esempi si creano delle simulazioni in cui sono presenti le varie parti in causa e si mette in moto un meccanismo di ascolto reciproco. Si tratta però del cosiddetto ascolto attivo: ognuno racconta il proprio vissuto rispetto a quel conflitto senza essere interrotto e poi gli altri o l’altro gli dà un feedback provando a fare una sorta di parafrasi : «Vediamo se ho capito, mi stai dicendo che…». Se è stato compreso, il passo successivo è assumere il suo punto di vista senza negare il proprio, anche per quanto riguarda le emozioni. A quel punto, si apre una prospettiva inedita sulla questione e le domande che ciascuna parte si deve fare saranno:
«Capisco qualcosa di nuovo? Ci sono aspetti che sottovalutavo? E poi: possiamo provare delle soluzioni un po’ più agili, che ci permettono di stare meglio?». A seconda della situazione e del conflitto, si mettono in atto delle tecniche che sono comunque tecniche di moltiplicazione delle opzioni.
Cioè, rispetto a A o non-A, che è la situazione iniziale, bisogna riuscire, attraverso per esempio il brainstorming, la ricerca di buone pratiche, eccetera, ad avere le opzioni A, B, C, D, E, F…
Con una casistica più ampia di possibilità di sviluppo di quel tipo di conflitto, si trovano soluzioni che prima non erano venute in mente e che possono andare meglio per tutti.
Nelle scuole dovrebbe esserci la possibilità da parte dei ragazzi di fermarsi a riflettere sia sulla conflittualità nella vita quotidiana, nella scuola, nel territorio. Ad esempio, nell’ambito dell’educazione civica, prendere dei casi di conflitti nel territorio e vedere come i soggetti che li stanno sviluppando potrebbero affrontarli in modo più creativo e meno violento o oppressivo, possibilmente. A mio parere è un pezzo importante dell’educazione civica, oggigiorno la convivenza richiede queste competenze e capacità di lettura – che si può esercitare anche studiando la storia, la letteratura, leggendo Shakespeare, persino studiando matematica. Perché i paradossi della matematica sono un pezzo molto interessante di tutto questo, dal momento che nel percorso per arrivare alla gestione creativa dei conflitti il paradosso (A e nonA sono entrambi veri) è fondamentale per la conoscenza e la legittimazione delle posizioni contrapposte. Mi spiego meglio.
Nella comunicazione non conta solo quello che dici ma i contesti da cui parti: le stesse cose possono avere significati opposti, entrambi legittimi, che puoi affrontare solo andando a dare spazio agli assunti, alle premesse di partenza dei due contendenti. Assunti, dati per scontati, che sono divergenti. Il passaggio dalla razionalità alla saggezza richiede di dare spazio al paradosso, che è anche un approccio molto divertente.
Colpisce il concetto di “ascolto attivo” dell’interlocutore, cioè il fatto di provare a considerare l’avversario in tutte le sue dimensioni. Non per “gentilezza” bensì proprio perché l’uscita da una crisi si può trovare di fatto comprendendo un po’ di più la nostra complessità e diversità. Questo anche nei conflitti macro?
L’idea dell’ascolto attivo è cercare di capire come l’altro percepisce la situazione. Ogni volta che c’è un conflitto, anche come quello fra Russia e Ucraina, oppure quello israeliano palestinese, bisognerebbe fare un assessment, un’analisi, una disamina del conflitto che inizia andando a intervistare ognuna delle parti, e in ogni parte la pluralità dei soggetti coinvolti.
A ciascuna persona e gruppo bisognerebbe chiedere: «Qual è la tua esperienza? Come percepisci la situazione che ha portato a questo conflitto?»
Perché ognuno ha la propria esperienza di come quel conflitto è nato, si è sviluppato, cosa implica per i propri interessi, valori, identità. Bisogna, poi, ricostruire la vicenda da ogni punto di vista e poi mettere insieme tutti i punti di vista, in modo che ognuno sia consapevole del proprio (che deve poter avallare) ma anche di quello dell’altro. A partire da qui, lavorare per capire quali sarebbero delle soluzioni di mutuo gradimento. L’ostacolo è che abbiamo una classe politica dirigente che ha una leadership di tipo patriarcale autoritario.
Provare a pensare insieme a delle soluzioni di tipo creativo? Vai a spiegarlo a Putin, ma anche a Macron. Per questo bisogna confidare nelle nuove generazioni.Se invece di fare il muro tra la West Bank e i territori di Israele si facesse un grande orto condiviso? Le due popolazioni amano l’agricoltura e hanno moltissime competenze!
Guarda il video della fondazione Alex Langer sulla tecnica Alternative Dispute Resolution
I leader attuali penserebbero subito che attraverso l’orto passerebbero i terroristi. Invece, attraverso il dialogo e la costruzione dell’orto si potrebbe costruire anche un senso di mutuo rispetto e riconoscimento che supera tutta una serie di contrapposizioni antiche e viscerali che hanno le loro ragioni, ma il punto è che se ti fermi a quelle non vai avanti mentre bisogna provare a guardare a un futuro migliore. Noi dobbiamo avere una classe dirigente, in senso ampio, che cambi approccio, per fortuna persone che stanno studiando queste cose a livello internazionale ce n’è abbastanza.
Quindi è possibile pensare a questo approccio in un conflitto come quello attuale tra Russia e Ucraina?
Ci sono stati mesi e mesi in cui le truppe russe si stavano allineando lungo i confini, e in cui nel Donbass c’era una presenza che soffiava sul separatismo… Già in quel momento serviva un’iniziativa che facesse emergere le voci divergenti. Dentro il Donbass c’è una parte di popolazione russa che non vede come un vantaggio separarsi, che si sente anche parte della cultura ucraina (che è la base della cultura russa, lo vediamo ad esempio nella letteratura). Serve la capacità di dare protagonismo alla pluralità di voci e stabilire, tra i soggetti, dei rapporti con cui possano provare ad affrontare la divergenza in un modo che non è violento. Ogni volta che c’è un conflitto (A vs non-A) una delle cose da fare è uscire dalla polarizzazione, dare voce a molti più punti di vista che esistono nel territorio e che non sono né A né non-A ma magari sono qualcosa di leggermente diverso. Altrimenti emerge solo una semplificazione del problema che si tende a risolvere con le armi.
Si dice «ci vuole la diplomazia», ma è lo stesso che dire «ci vuole la pace», anche Putin dice di volere la pace. Ma concretamente che cosa vuole dire? Come si costruisce una pace?
Si costruisce creando dei contesti in cui si dà spazio al protagonismo delle voci divergenti e tra queste si crea una possibilità di interlocuzione per un progetto che risulti un futuro desiderabile per la stragrande maggioranza delle persone. Per esempio, le tensioni separatiste nel Donbass sono posizioni ideologiche che hanno alle spalle anche un disagio concreto. Magari io parlo con un abitante del Donbass che mi dice «Qui abbiamo un problema di disoccupazione, un problema di alloggi», cioè le persone spesso vivono una criticità ma non vuol dire necessariamente che sono con quelli e contro quegli altri.
Tornare alla concretezza delle criticità della convivenza può risolvere le contrapposizioni.
Questo vale ovunque. Io ho lavorato anche in Kossovo: quando ti trovi tra popolazioni che si sono uccise a vicenda, tra vicini di casa, come si fa a ricostruire un tessuto di convivenza? Certamente non andando a riparlare di chi, ai tempi, aveva ragione o torto, ma partendo dal comune disagio della ricostruzione sociale ed economica, dalla comune preoccupazione per il futuro dei figli. Per esempio ragionando insieme sulla costruzione di case, sulla loro assegnazione, eccetera.
Attorno ai problemi concreti si possono coinvolgere persone che hanno posizioni ideologiche divergenti: creare dei tessuti di convivenza dialogici, capaci di affrontare i problemi.
Ciò può impedire di arrivare a situazioni estreme e ideologiche, i buoni, i cattivi, i nazisti… queste sono le generalizzazioni che sentiamo sui media: ci saranno anche, i nazisti, ci sono dappertutto. Ma la polarizzazione ideologica toglie la possibilità di ragionare e ti dà già il modo con cui pensare (e se non pensi così sei un nemico).
La gestione costruttiva dei conflitti è ancora una visione di nicchia o si sta diffondendo?
C’è una maggiore consapevolezza di questo però in generale, in Italia ma non solo, si pensa che sia una questione di “buona volontà”. Il fatto che una persona sia disponibile e aperta verso le divergenze tende a essere interpretato in termini di tolleranza e di carattere mentre in realtà serve imparare delle dinamiche relazionali che chiunque può mettere in atto. Forse questo tipo di pregiudizio impedisce un po’ una riflessione matura sulla conflittualità e il diffondersi delle tecniche della gestione creativa. Per esempio, in questi giorni il papa sta proponendo in Italia il sinodo, in tutte le parrocchie quindi in ogni territorio. Una discussione di dialogo fra parrocchiani e dei parrocchiani con il proprio territorio, un bellissimo percorso dialogico che tendenzialmente si avvierà, però, con uno spirito evangelico astratto, mentre sarebbe un supporto pratico utilissimo conoscere le tecniche.
Ci sono step precisi da mettere in atto per trasformare la conflittualità, dal problem solving al problem setting: ovvero all’inizio sei dentro un problema ben definito, poi arrivi a ridefinirlo insieme all’altro e lo risolvi solo se lo ridefinisci in modo diverso. C’è tutta una letteratura su questo, adesso disponibile anche in Italia, ma in effetti si va a rilento rispetto alle necessità.
C’è qualcos’altro che vuole aggiungere?
Si, mi sembra interessante ricordare l’intervento dell’ambasciatore del Kenya alle Nazioni Unite, di pochi giorni fa, che ho proposto come lettura il 6 marzo al ventennale del Giardino dei Giusti a Roma. Riferendosi alla situazione in Ucraina, l’ambasciatore Martin Kimani ha portato l’esperienza degli stati africani, i cui confini sono stati determinati, man mano che finivano gli imperi, sulla carta e hanno tagliato a metà intere “nazioni” tradizionali, comunità linguistiche ed esperienze culturali.
Se avessero voluto riunire le comunità divise dai confini, gli africani avrebbero scatenato infinite guerre civili. Così hanno accettato di non considerarli delle barriere e di porli dentro una visione di convivenza più ampia: l’Unione Africana, l’Onu.
Hanno deciso di renderli facilmente attraversabili e di smettere di pensare che un confine determina una nazione. L’ambasciatore ha ragione, questo non è più vero, mentre è utile fare emergere una capacità di protagonismo su territori più ampi. Quei paesi hanno imparato anche perché hanno coltivato il pensiero della nonviolenza: in Sudafrica, Mozambico, Kenya ci sono scuole che ne insegnano l’approccio. Questo è quanto si sta cercando di realizzare in Africa e che anche in Europa bisognerebbe perseguire con maggiore determinazione.
The #UNSC briefing on the incident at the Zaporizhzhia Nuclear Power Plant in Ukraine.
Kenya called for urgent de-escalation and for dialogue noting the dangers posed by nuclear plants particularly the catastrophic humanitarian and environmental consequences of their destruction pic.twitter.com/9tKGnrqFYB
— Permanent Mission of Kenya to the UN ?? ?? (@KenyaMissionUN) March 4, 2022
Saperenetwork è...
- Laurea in comunicazione, specializzazione in marketing e comunicazione nel Non Profit. Per 15 anni mi sono occupata di comunicazione e formazione nell’ambito del consumo critico e del commercio equo, trattando temi quali l'impatto delle filiere a livello locale e globale su persone, risorse, territori, temi su cui ho anche progettato e condotto interventi nelle scuole. Dal 2016 creo contenuti online per progetti, associazioni, professionisti.
Ultimi articoli
- Notizie6 Novembre 2024Cop16, passi avanti su aree marine e comunità indigene, ma poche risorse
- Arte31 Ottobre 2024The Mountain’s Eyes, cosa vedono le montagne
- Eventi30 Ottobre 2024“Suoni e Segni di Vaia”, la mostra multisensoriale che ci parla di clima
- Notizie22 Ottobre 2024Testimoni di nonviolenza, giovani israeliani e palestinesi in un tour italiano