Alla rivoluzione. In vestiti di cotone sostenibile

Alla rivoluzione. In vestiti di cotone sostenibile

Qual è il vero prezzo della moda low cost? Luisa Ciuni e Marina Spadafora fanno il punto della situazione. Dallo sfruttamento del lavoro, anche minorile, all’inquinamento, passando per il greenwashing di tante aziende. Un piccolo vademecum per rivoluzionare i nostri armadi

Messi da parte ormai da moltissimo tempo gli eskimo, dimenticate le tenute nere dei black bloc, rivalutato l’utile impermeabile giallo “per tutte le stagioni” di Greta Thunberg, una piccola grande rivoluzione può partire da un vestitino estivo, di quelli intramontabili e senza tempo, dalle rifiniture perfette e dal tessuto e i colori ecologici e sostenibili.

 

La fast fashion viene associata anche alla moda usa e getta
La fast fashion viene associata anche alla moda usa e getta perché ha immesso sul mercato di massa prodotti di design a prezzi relativamente bassi, favorendo lo sfruttamento della mondopera

 

Basta infatti fermarsi a riflettere al perverso meccanismo del fast fashion, il sistema delle catene dell’abbigliamento che propongono capi nuovi in negozio ogni due settimane e che alimenta un rito fatto di acquisti d’impulso, tessuti scadenti, sfruttamento di manodopera e inquinamento, per capire che è il momento di cambiare il proprio modo di fare compere una volta per tutte.

La rivoluzione a portata d’armadio

Una guida a cosa sia oggi il mondo della moda e quali danni causi al pianeta, ce la forniscono la giornalista Luisa Ciuni e la stilista Marina Spadafora che, con La rivoluzione comincia dal tuo armadio, mettono in mano al lettore tutte le informazioni essenziali per capire come ogni piccolo gesto abbia poi una ricaduta ecologica importante.

 

Guarda l’intervento di Luisa Ciuni

 

Ogni anno centinaia di tonnellata di abiti dismessi finiscono nelle discariche. Molto spesso sono fatti di fibre sintetiche e inquinanti, ancora più spesso è lo stesso metodo di produzione a essere altamente inquinante e tossico per i lavoratori occupati, ma per lo più sfruttati, nella filiera.

Qual è il vero prezzo?

Dietro la possibilità di comprare un paio di jeans a pochi euro c’è lo spreco di 3781 litri d’acqua per ogni singolo paio, l’uso di tinture riversate nei corsi d’acqua, lo sfruttamento di lavoratori esposti a malattie professionali altamente invalidanti, e addirittura alla morte, come è successo nel crollo del Rana Plaza in Bangladesh, nel 2013, e nel quale morirono 1138 operai e 2500 rimasero feriti.

 

Guarda il servizio sul crollo del Rana Plaza in Bangladesh ne 2013

 

Scandali, documentari e reportage giornalistici hanno iniziato a rivelare cosa ci sia dietro il luccichio dei lustrini. Le storie di intere e costosissime collezioni firmate invendute date alle fiamme, inquinando il suolo e l’aria, di animali maltrattati per imbottire piumini, di agricoltori truffati, di bambini raccoglitori di cotone in campi irrorati dai pesticidi stanno però facendo nascere una maggiore consapevolezza nei consumatori.

Delocalizzare il “problema”. L’arte del greenwashing

Come le autrici spiegano, negli ultimi anni questa nuova coscienza ecologica e sociale ha portato molti grandi marchi a aderire alle linee guida di Greenpeace per una moda consapevole e responsabile lanciate con la campagna Detox.

 

Guarda il video della campgna Detox di Greenpeace

L’Italia, in tal senso, è una delle nazioni più virtuose soprattutto rispettando la tradizione di produttori di filati, pellami e tessuti esportati in tutto il mondo. Ma il problema è spesso delocalizzato, insieme alle produzioni, in paesi in cui mancano le tutele dei lavoratori e le normative per la difesa ambientale. L’adesione ai protocolli, senza però occuparsi di come i terzisti li facciano applicare, può nascondere infatti solo una operazione di greenwashing, l’ormai celebre meccanismo attraverso il quale le compagnie solo apparentemente abbracciano l’idea della tutela del pianeta.

La soluzione è nelle nostre scelte

Quali allora le soluzioni? Luisa Ciuni e Marina Spadafora le illustrano in modo molto semplice. Prima di tutto smettere di comperare abiti usa e getta, fare attenzione ai materiali di ciò che si acquista e al luogo nel quale viene prodotto. Ci vuole un po’ d’impegno, ma è utile anche verificare prima dell’acquisto se il marchio è fra quelli che si batte per una moda sostenibile ecologicamente e per rispettare i diritti dei lavoratori.

Fondamentale è poi l’economia circolare scegliendo prodotti biodegradabili, prolungando la vita di ciò che compriamo attraverso i mercatini, i negozi degli abiti di seconda mano ma anche scegliendo capi che potranno restare nei nostri armadi per anni mantenendo il loro fascino e la loro bellezza, cioè quello che aveva fatto grande la moda e la sartoria italiana.

Piccolo vademecum per acquisti consapevoli

Sì, perché l’allarme viene anche dal mondo della moda e se n’è fatto portavoce poche settimane fa Giorgio Armani, chiedendo di ritornare a un lavoro che tenga il passo con le stagioni, fatto di idee innovative, di riconoscibilità, di creatività, contro un sistema ormai solo dominato dalla finanza e che sempre più schiaccia i suoi giovani talenti, esaurendone forze e dinamicità, con continue collezioni.

 

 

Anche di questo parlano le autrici, delle conseguenze su tutta l’economia nazionale, e offrono un vademecum: indirizzi web per verificare l’impegno dei marchi, informazioni su start up della moda impegnate nel minimizzare gli sprechi e trovare soluzioni originali per valorizzare persino gli scarti delle produzioni alimentari, suggerimenti pratici per ripensare il nostro modo di vestire.

Un atto morale

È vero che c’è qualche semplificazione di troppo in La rivoluzione comincia dal tuo armadio, qualche inesattezza e ingenuità che non inficiano però l’utilità del manualetto rivolto a chi vuole iniziare a capire i risvolti della moda low cost e vuole impegnarsi a non fare più parte del sistema.

Come infatti le autrici ripetono, ogni acquisto è un atto morale oltre che economico e il primo passo verso la rivoluzione nasce dal porsi la banale domanda: «Chi fa i miei vestiti?».

Saperenetwork è...

Maria Luisa Vitale
Maria Luisa Vitale
Calabrese di nascita ma, ormai da dieci anni, umbra di adozione ho deciso di integrare la mia laurea in Farmacia con il “Master in giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza” dell’Università di Ferrara. Arrivata alla comunicazione attraverso il terzo settore, ho iniziato a scrivere di scienza e a sperimentare attraverso i social network nuove forme di divulgazione. Appassionata lettrice di saggistica scientifica, amo passeggiare per i boschi e curare il mio piccolo orto di piante aromatiche.

Sapereambiente

Vuoi ricevere altri aggiornamenti su questi temi?
Iscriviti alla newsletter!


Dopo aver inviato il modulo, controlla la tua casella di posta per confermare l'iscrizione

 Privacy policy


Parliamone ;-)