Capitalismo Woke, le mani delle aziende sulla democrazia
Nel suo libro l’accademico australiano Carl Rhodes descrive una nuova, recente fase del capitalismo: imprese che, spacciandosi per progressiste, arrivano a mettere in pericolo i valori del vivere in comune. Un saggio utile a dissipare equivoci e ricordare i problemi irrisolti: disuguaglianza economica e ingiustizia sociale
La Cop 27, svoltasi a Sharm el-Sheik nel novembre 2022, aveva come sponsor Coca Cola. Il più importante incontro internazionale dove ci si ritrova per discutere di come contrastare il cambiamento climatico causato dal riscaldamento globale di origine antropica e la conseguente perdita della biodiversità, era patrocinato dall’azienda che è tra i maggiori inquinatori a livello mondiale per la plastica.
Qualcuno potrà convincersi che questo tipo di azioni di marketing sono sostanzialmente buone.
Perché magari, anche se la multinazionale in questione è coinvolta in cattive pratiche – nel caso di Coca-Cola disastri ambientali su scala globale e violazioni dei diritti umani – si sforza comunque di migliorare abbracciandone di buone. Questo almeno è quanto credono alcuni settori progressisti pronti a salutare l’attivismo sulle buone cause come una nuova fase del capitalismo. Migliore di quella classica prima, e di quella neoliberista poi, che si proponeva di perseguire gli interessi esclusivi del profitto o degli azionisti secondo i dettami dell’economista Milton Friedman, secondo cui «la responsabilità sociale delle imprese è quella di aumentare i profitti».
Nessun dorma
Ingenuità e ottimismo verso le imprese all’apparenza virtuose non sono condivisi da Carl Rhodes, autore di Capitalismo Woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, secondo cui gli spot contro la mascolinità tossica prodotti da Gillette nel 2019 o quello dell’anno precedente in cui Nike usa come testimonial il giocatore di football americano Colin Kaepernick – che in protesta contro le violenze razziali si inginocchiava sul campo da gioco ogni volta che veniva eseguito l’inno degli Stati Uniti – rappresentano sì una fase nuova del capitalismo che tende in realtà a preservarne tutte le caratteristiche di disuguaglianza economica e ingiustizia sociale.
Rhodes è professore della Business School presso la University of Technology di Sidney, in Australia, e studioso della dimensione etica dell’impresa. Da buon accademico, il suo sforzo di partenza è definitorio. Per descrivere una tendenza messa in atto dalle grandi aziende nell’ultimo decennio, Rhodes non usa un’etichetta consolidata come quella del brand activism, con cui le stesse corporation amano definire il proprio impegno per il sociale. Piuttosto ritorna a un temine della tradizione economica e politologica come “capitalismo”, che la pubblicistica e anche l’uso popolare nel mondo anglosassone accosta ormai da qualche anno alla parola “woke”. Ed è questo termine, woke capitalism – poco o per niente conosciuto nel panorama italiano e difficilmente traducibile tanto da restare in originale nel titolo del saggio – ad aver cambiato più volte significato. Nato nello slang afroamericano ad indicare consapevolezza contro la discriminazione etnica, subisce un ribaltamento quasi completo quando viene attribuito ai capitani d’industria che abbracciano le cause progressiste, da Jeff Bezos con il suo fondo di 10 miliardi di dollari per combattere il cambiamento climatico, all’attività filantropica di Bill e Melissa Gates. Eppure, secondo Rhodes, la parola può ancora riagganciarsi al senso militante delle origini, se facciamo in modo che lo “stare all’erta” dell’essere woke, possa essere rivolto contro lo stesso “wokinsmo” dei lupi capitalisti vestiti da agnelli.
Metamorfosi del capitale
Come? Il pregio del saggio di Rhodes è che per indicare la strada di un rinnovato attivismo non solo svela un inganno di superficie, ma va anche in profondità. Lo fa in tre mosse. Intanto, mette in luce che quando le aziende accompagnano, abbracciano o promuovono attivamente cause progressiste, agiscono per puro interesse, non per il bene comune, seguendo il motto “go woke or go proke”, adeguati alla causa di turno (lgbt, ambientale, femminista ecc) oppure fallirai economicamente. Con il limite che il presunto progressismo delle corporation si ferma quando tale causa non va più a vantaggio del profitto dell’azienda.
La convenienza del capitalismo, sostiene Rhodes, è quella di mettersi al riparo dagli occhi dell’opinione pubblica, rispetto ad un’economia di mercato globale che ha mostrato falle sempre più evidenti negli ultimi 15 anni.
Corollario non trascurabile di questo atteggiamento opportunistico è che il wokismo, trasformato in emblema del progressismo, può essere agevolmente bollato come ipocrita dai populisti conservatori. Rhodes cita Donald Trump e Boris Johnson, ma non è difficile accostarvi Salvini e Meloni. Quello che l’autore non dice esplicitamente è quanto la colpa di questo fraintendimento sia anche di chi si definisce progressista. Perché chi pensa che l’attivismo aziendale sia positivo, e che al limite dovrebbe essercene di più, dimentica qualcosa.
Come sottolinea Rhodes, le cause sociali, per quanto importanti, vengono utilizzate dalle multinazionali per far dimenticare sia l’enormità dell’evasione fiscale da esse messa in atto, sia l’ingiustizia di bassi salari e l’abuso di condizioni lavorative para-schiavistiche (vedi Apple, Amazon e altre aziende della gig economy). Senza dimenticare che, dopo il prosciugamento del ruolo dello Stato causato della dottrina neoliberista, i ceo delle grandi aziende arrivano perfino a teorizzare la sostituzione delle funzioni pubbliche da parte delle corporation globali. Un rischio che secondo Rhodes va in tutti i modi scongiurato, pena la fine della democrazia come spazio del perseguimento del bene comune senza riferimento al profitto.
E qui forse il nuovo e il vecchio si intrecciano.
I fenomeni economici e sociali mutano di continuo, il capitalismo woke è una novità recente. Eppure le analisi classiche della struttura economica della società non perdono il loro potere: il contrasto tra capitale e lavoro descritto da Karl Marx quasi due secoli fa, è ancora in campo. Ben lontano dall’essere risolto a vantaggio del secondo.
Saperenetwork è...
- Giornalista, laureato in Filosofia, ha cominciato sbagliando tutto, dato che per un quotidiano oggi estinto recensiva libri mai più corti di 400 pagine. L’impatto con il reportage arriva quando rimane bloccato dalla polizia sotto la Borsa di Londra con i dimostranti anti-capitalisti. Tre anni nella capitale inglese, raccontandola per Il Fatto Quotidiano, poi a Bruxelles, dove ha seguito le elezioni europee del 2014 e del 2019. Nel 2024 rischia di fare lo stesso, stavolta per Il manifesto.
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