L’impresa del futuro e complessità, il saggio di Massimo Mercati
Adattare all’organizzazione d’impresa i modelli della natura. La visione dell’amministratore delegato di Aboca per ripensare l’economia nel segno della responsabilità sociale e del bene comune
Si può fare impresa superando la logica del mero profitto e rispettando gli equilibri naturali? Quali caratteristiche devono avere le organizzazioni aziendali del futuro? Cosa deve guidare i manager nelle decisioni? Queste sono soltanto alcune domande a cui Massimo Mercati, con il saggio L’impresa come sistema vivente, ha provato a rispondere. L’analisi dell’amministratore delegato di Aboca, attraverso alcuni concetti fondamentali della teoria della complessità, ci mostra le affinità tra i sistemi viventi e le organizzazioni sociali. Punti di contatto che possono essere compresi soltanto se abbandoniamo la visione meccanicistica della scienza e della realtà e accogliamo quella olistica o della rete, in cui sono fondamentali le interazione fra le parti, le relazioni e i processi emergenti che da queste derivano.
“C’è bisogno di recuperare un modello che metta al centro il Bene Comune. Oggi il profitto non può prescindere dalla creazione di valore sociale e ambientale”. Massimo Mercati, AD Aboca, in occasione del @BCorpItalia Summit https://t.co/dRYQDcic2k#TimetoB2018 #BCorpItalianSummit pic.twitter.com/7yBkihPxzO
— Aboca (@AbocaIT) January 2, 2019
Come ci insegna Fritjof Capra, fra i teorici dell’ecologia profonda, le reti hanno la caratteristica di creare e ricreare se stesse rinnovando e sostituendo i loro elementi, sono autogenerative, ma allo stesso tempo preservano il loro schema organizzativo e quindi la loro identità. Per quanto riguarda le reti sociali, in particolare, possiamo affermare che il loro aspetto cruciale è la cultura intesa «come creata e sostenuta da una rete di comunicazioni nelle quali viene generato il significato». Per usare le parole del sociologo tedesco Niklas Luhmann «le comunicazioni producono un sistema di credenze, spiegazioni e valori condivisi – un orizzonte comune di significato».
Ed è proprio la cultura che contribuisce poi a stendere un confine immateriale, che comprende fiducia e lealtà, e che impone dei limiti ai componenti della rete sociale. Pertanto, evidenzia Massimo Mercati:
«Non tutti possono far parte di una rete, ma solo coloro che ne condivideranno il significato: è il confine stesso che tenderà ad escludere chi non condivide questa dimensione essenziale».
Per un’identità collettiva dell’impresa
Questo discorso ci aiuta a comprendere meglio le dinamiche nei processi organizzativi. Quando parliamo di “vision” aziendale (ma anche di un partito, di una associazione, ecc) non facciamo altro che ricercare il comune orizzonte di senso, che va oltre la struttura formale. E che rappresenta il cuore dell’impresa, la sua identità collettiva. Un’identità che non può avere come collante il profitto – che rischia invece di far venir meno proprio il senso di comunità nell’organizzazione – ma i valori, che tuttavia non devono essere soltanto enunciati ma messi in pratica. In linea con un “vision” chiara, chi fa parte della rete aziendale dovrà essere guidato da regole semplici, capaci di adattarsi ai contesti che mutano e che pertanto non seguono lo schema di causa-effetto tipico del meccanicismo. Le azioni infatti possono essere considerate piuttosto come stimoli o elementi di disturbo all’interno di un sistema. Il quale si autoregola e risponde con una reazione che non ci è dato conoscere a priori. Il ruolo di chi dirige la rete dell’azienda allora sarà quello di «imparare a lavorare sulla creazione delle condizioni come metodo per orientare il sistema verso un obiettivo prefissato, monitorando costantemente il processo in divenire».
Il manager allora avrà delle responsabilità sul processo, orientando il sistema verso un obiettivo modulabile. Studiando attivamente il potenziale di ogni azione e valutando quando è il caso di intervenire. Proprio come ci suggerisce la filosofia taoista del wu-wei. Per quanto riguarda la distribuzione del potere all’interno dell’azienda, Massimo Mercati ci dice che non è efficace la logica comando-risultato. Non è questo il metodo per ottenere l’obbedienza. Nella rete, infatti, tutti i nodi si muovo contemporaneamente e tutti hanno delle responsabilità. L’obbedienza coincide allora con il riconoscimento dell’autorità, in cui non c’è sottomissione e prevaricazione, ma si afferma l'”ordinata concordia” cara a sant’Agostino. E ognuno trova il proprio posto senza costrizioni.
Per usare lo schema del filosofo francese Frédéric Gros, chi comanda deve avere delle qualità precise: la competenza, virtù o integrità morale, e la sollecitudine, vale a dire una costante attenzione nei confronti degli altri. Si creano in questo modo le condizioni per ottenere l’obbedienza e per muoversi in direzione del bene comune. Si tratta quindi di prendersi cura degli altri.
Oltre il profitto. Homini natura amicus
Ma secondo Mercati l’impresa deve collocarsi anche all’interno di una dimensione più ampia rispetto a quella del mercato. Il suo nuovo spazio è ora l’ecosistema. Questo implica un ripensamento del concetto di crescita, perché quello legato all’economia lineare si basa su un aumento delle transazioni monetarie attraverso il consumo e non tiene conto degli effetti negativi della produzione sull’ambiente e la società. Allo stesso modo, secondo la riflessione di Massimo Mercati, dovremmo riconsiderare anche il diritto di proprietà, specialmente nelle attività agricole. Come si potrebbe, infatti, pensare d’investire seriamente nella produzione di prodotti biologi se ancora permane la concezione del dominus assoluto del terreno, e quindi la possibilità di utilizzare nel proprio appezzamento pesticidi che danneggiano le produzioni dei terreni confinanti? Se comprendiamo davvero la necessità di stabilire un equilibrio con la natura, allora dovremmo creare le condizioni per affiancare al concetto di proprietà quello di custodia e non quello di appropriazione. Si tratta di un cambiamento necessario per preservare le risorse naturali. Il modello capitalistico infatti:
«Ci mette di fronte a una evidenza: non tutto potrà continuare a crescere, quindi ci troveremo a combattere a causa della scarsità di risorse, perché così come accade in natura, non c’è posto per tutti e solo alcuni ce la faranno».
L’impresa del futuro pertanto non si preoccuperà più della crescita quantitativa ma di quella qualitativa. Sarà quindi capace di produrre, oltre al profitto, un impatto positivo su ambiente e società. La nuova impresa sarà, in altri termini, quella rigenerativa, capace di creare valore per la comunità e di proteggere le risorse naturali. Ci troviamo di fronte dunque a un cambio di paradigma: l’uomo non sarà più il dominatore della natura, ma piuttosto una parte della natura, interconnesso a tutti gli esseri viventi. In questo nuovo mondo non ci sarà più spazio per la competizione neoliberista che abbraccia la massima homo homini lupus, perché la sopravvivenza della nostra specie sarà garantita soltanto se applichiamo il principio homini natura amicus.
Saperenetwork è...
- Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.
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