La crisi in Myanmar tra repressione e papaveri

Il 1º febbraio 2021 le forze militari birmane con un colpo di stato hanno rovesciarto il governo di Aung San Suu Kyi (Foto: UN Human Rights).

La crisi in Myanmar tra repressione e papaveri

Due anni dopo il colpo di stato, nell’ex Birmania si sta assistendo a una grave crisi economica e sociale. Per le Nazioni Unite è giunto il momento di intervenire per fermare le violenze. Si registrano 2.800 morti e 1,3 milioni di persone in fuga.  L’Unodc lancia l’allarme: «la produzione di droga è aumentata dell’88% rispetto al 2021».

«Secondo quasi tutte le misurazioni possibili e in ogni area dei diritti umani – economici, sociali e culturali, tanto quanto civili e politici – il Myanmar è profondamente regredito». Incomincia con queste parole l’analisi di Volker Türk, capo delle Nazioni Unite, sulla grave crisi che sta attraversando l’ex Birmania. Dopo il colpo di stato per mano dell’esercito birmano contro il governo eletto democraticamente, il Paese sta facendo pericolosi passi indietro. Nessuna protezione dei civili da parte dei militari, anzi, dal 1 febbraio 2021 si registra un forte aumento della violenza su chi prova pacificamente a ribellarsi.

Come ha da subito denunciato Amnesty International, «l’uso di armi normalmente impiegate nei campi di battaglia è espressione di una precisa e premeditata volontà di uccidere. Contro i manifestanti vengono usati in tutto il Paese pallottole, proiettili di gomma, idranti, lacrimogeni, granate stordenti e fionde. Il tasso di mortalità è notevolmente aumentato».

 

volker turk
Volker Türk è un avvocato austriaco e funzionario delle Nazioni Unite. Dal 17 ottobre 2022 è Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

 

E la conferma è arrivata proprio dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite che, sulla base di fonti attendibili, ha denunciato la morte di almeno 2.800 persone, di cui 767 sono stati inizialmente presi in custodia. Ma potrebbero essere molti di più. Gli sfollati interni sono 1,2 milioni e oltre 70.000 hanno lasciato il Paese, unendosi ad altri milioni di persone in fuga dai territori in cui c’è la repressione e il terrore. È il caso della popolazione musulmana Rohingya: uomini e donne senza Stato, sottoposti ad una vera e propria operazione di pulizia etnica da decenni.

In Myanmar oltre 34.000 strutture civili, tra cui case, cliniche, scuole e luoghi di culto, sono state bruciate negli ultimi due anni. L’economia del Myanmar è crollata con quasi la metà della popolazione che ora vive al di sotto della soglia di povertà.

Per Jeremy Douglas, rappresentante regionale dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), c’è una forte relazione fra gli sconvolgimenti economici, politici e di sicurezza  che hanno seguito il colpo di stato, «gli agricoltori nello Stato Shan settentrionale o nelle regioni di confine non hanno avuto altra scelta che tornare alla coltivazione del papavero». I numeri dell’Unodc sono piuttosto chiari, la superficie di terra utilizzata per la coltivazione del papavero, fonte di oppio ed eroina, è aumentata del 33% in un anno, fino a raggiungere i 40.100 ettari nel 2022. La produzione totale è stimata in 790 tonnellate, in aumento dell’88% rispetto all’anno precedente. In totale, l’economia del papavero del Myanmar ha un valore di 2 miliardi di dollari, mentre il commercio regionale di eroina è stimato a circa 10 miliardi di dollari. Ha spiegato Douglas:

«La crescita che stiamo vedendo nel traffico di droga è direttamente collegata alla crisi che il Paese sta affrontando. L’impatto sulla regione è profondo. I vicini del Paese devono valutare e affrontare la situazione con franchezza e dovranno prendere in considerazione alcune opzioni difficili».

 

 

È di pochi giorni fa, poi,  la notizia che l’esercito del Myanmar  ha annunciato una nuova e severa legge sui partiti politici che probabilmente solleverà ulteriori interrogativi sull’equità delle elezioni promesse entro agosto. La legge, che sostituisce la legislazione del 2010, vieta la partecipazione alle elezioni ai partiti e ai candidati ritenuti di avere legami con individui o organizzazioni “designati come autori di atti terroristici” o considerati “illeciti”. Un ulteriore grave attacco alle libertà dei civili e al possibile ritorno a forme di convivenza democratica. Che si aggiunge agli arresti- 16.000 militanti dell’opposizione tra cui la leader democratica Auung San Suu Kyi–  con accuse pretestuose per chi ha rifiutato il golpe.  Eppure ha ricordato Volker Türk:

«Fin dal suo primo anno di indipendenza, il Myanmar è stato tra i primi Stati membri ONU a votare a favore della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Purtroppo, mentre celebriamo i 75 anni dall’adozione della Dichiarazione, l’esercito è attivamente impegnato nella violazione di valori, principi e diritti fondamentali in essa sanciti».

E ha aggiunto: «Come può un esercito che pretende di difendere il Paese aver portato la propria gente – proveniente da tutte le parti della società ricca e diversificata del Myanmar – a un tale punto di disperazione? Il mese scorso, il Consiglio di sicurezza si è unito per adottare una risoluzione rivoluzionaria che richiedeva la fine immediata della violenza, tra gli altri passi urgenti. Ora è tempo che il mondo si unisca per intraprendere azioni comuni per fermare le uccisioni, proteggere il popolo del Myanmar e garantire il rispetto dei suoi diritti umani universali».

 

Guarda il video sulla repressione in Myanmar 

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Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.

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