«Quando i profughi eravamo noi»: Andrea Segre racconta il Po, tra i filmati dell’Istituto Luce dell’alluvione nel Polesine

Due uomini in barca sul Po in un fotogramma del film di Andrea Segre

«Quando i profughi eravamo noi»: Andrea Segre racconta il Po, tra i filmati dell’Istituto Luce dell’alluvione nel Polesine

È in sala dal 29 marzo il documentario di Andrea Segre e Gian Antonio Stella sulla tragedia che costrinse migliaia di persone a lasciare la propria terra rendendole profughe del grande fiume. Un tema quanto mai attuale

Il Po è sorvegliato speciale: prosegue inesorabile l’esaurimento delle sue acque dopo 114 giorni senza pioggia. Quella iniziata a cadere il 29 marzo, ha fatto sapere l’Autorità distrettuale preposta, non potrà migliorare la siccità estrema di cui è vittima, almeno non in maniera significativa. Caso ha voluto che proprio da quel giorno è in sala un documentario che il grande fiume ha come protagonista. Po, diretto da Andrea Segre e scritto insieme a Gian Antonio Stella, è il racconto dell’alluvione del Polesine nel 1951, attraverso le parole di tanti testimoni, allora poco più che bambini, e le immagini, atrocemente belle, dell’Archivio dell’Istituto Luce.

«Ho voluto raccontare anche quello che il fiume è ora – spiega Andrea Segre – Oggi il Po è quasi deserto: ci sono poche persone che lo vivono, che lo navigano, che ci pescano. C’è un abbandono diffuso sia per l’inquinamento delle acque e delle coste, sia per lo sviluppo del trasporto su gomma che ha cancellato il trasporto lungo il fiume, cosa che non è stato per altri grandi fiumi europei».

 

Una delle protagoniste del documentario Po
Po di Andrea Segre, scritto insieme a Gian Antonio Stella, racconta l’alluvione del Polesine attraverso il racconto dei sopravvissuti, all’epoca bambini

 

E adesso la secca, da cui riemergono villaggi medievali (nella zona di Alessandria), semicingolati tedeschi (nella zona di Mantova), antiche chiatte (nel reggiano), che mette a rischio agricoltura, allevamenti e biodiversità in un territorio, quello del Delta del Po, che dal 2015 è Riserva di Biosfera Unesco. Settant’anni fa, invece, a dare abbrivio alla tragedia era stata la rottura dell’argine sinistro, a pochi passi da Occhiobello, in provincia di Rovigo, che aveva provocato l’inondazione in pochi minuti di quella che allora era una delle zone più povere d’Italia.

 

          Guarda il video di Po 

 

«Il momento della rottura è stato fortemente drammatico: il fiume è molto potente e invade tutto in pochi istanti. Tuttavia, invade un territorio molto ampio e molto piatto, per cui la tumultuosità delle acque si calma abbastanza presto. L’acqua forma un lago immenso nella zona del Polesine che è un’area depressa, sotto i livello del mare: rimane lì e non riesce ad arrivare al mare. Dopo le prime ore, il dramma diventa quello di doversene andare, di lasciare le proprie case, di affrontare l’acqua, per gente che non sa nuotare», prosegue Segre, che è tornato nel Veneto dopo il documentario Molecole, girato a Venezia durante il lockdown, e il lungometraggio Welcome Venice (presentato in anteprima alla 78esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, nella selezione ufficiale delle Giornate degli Autori).

Lendinara, Fratta Polesine, che nel 1885 aveva dato i natali a Giacomo Matteotti, Adria fino a Porto Tolle e il delta del fiume: centomila ettari di terreno nella poverissima provincia di Rovigo che in quel 14 novembre subì una delle peggiori tragedie del Dopoguerra: 101 morti, sette dispersi e circa 180.000 tra sfollati e senzatetto, 700 le abitazioni distrutte, un numero imprecisato di animali affogati, 80mila persone che non fecero più ritorno nelle proprie case.

Secondo Giorgio Botta (in Difesa del suolo e volontà politica: inondazioni fluviali e frane in Italia (1946-1976), i danni furono stimati in 400 miliardi di lire (corrispondenti a più di 7 miliardi di euro di oggi).

 

 

Il primo piano di un bambino nelle immagini dell'Istituto Luce
Immagini odierne si alternano, nel documentario, alle riprese del 1951 dell’Istituto Luce. Riprese di alta qualità, spiega Segre: «Ci siamo resi conto che c’era una qualità non solo cinematografica ma anche di sguardo cinematografico»

 

“Il Po ha rotto”, si sente dire dagli intervistati in quel dialetto dolce di confine, tra il Veneto e l’Emilia. «A me piace moltissimo lavorare con tutte le lingue madri. Ho sempre fatto documentari in cui lascio la possibilità alle persone di raccontare anche in una lingua che non capisco» riprende il regista, che con Stella ha inanellato un racconto di immagini e parole, in bocca a uomini e donne presi dai propri ricordi di infanzia e di miseria, “una miseria esagerata”: povertà, pellagra, analfabetismo, fame. E ancora: «È importante perché così lascio al protagonista la possibilità di essere più autorevole di me: sa che può raccontare anche se non capisco e questo gli permette una grande libertà. Io capisco il veneto (Segre, figlio di un veneziano e di una chioggiotta, è nato a Dolo, in provincia di Padova, ndr), ma quello di quella zona a tratti non lo capivo e ne ero molto felice. È stato una grande scoperta quel pezzo di lingua fatta di contaminazioni. Penso dipenda dal vivere tra le due sponde del fiume, dall’essere in punto di passaggio di altre genti».

Talmente tanta fame che quando in una stalla del Polesine moriva di malattia una mucca o un bue e il veterinario ne ordinava il seppellimento, quando si allontanava, 20-30 contadini armati di badili e accette si precipitavano a dissotterrare la bestia e sezionarla. Talmente tanta miseria da non saper neanche come si mangia una bistecca.

 

 

Sono questi contadini, queste mondine, questi pescatori di gamberetti, questi allevatori a cui è restato solo un maiale, che si riversano nelle altre zone di un’Italia altrettanto ignorante e stracciona, appena uscita dalla guerra. I profughi del grande fiume, per cui all’inizio si era scatenata una gara di solidarietà, con aiuti arrivati dagli Usa e dall’Urss, il soccorso immediato del Governo e la presenza sul campo delle forze politiche di maggioranza e opposizione, vengono ben presto additati per la loro povertà, per il loro dialetto di campagna, per le loro mani spaccate dalla terra, i loro occhi segnati dalla fame.

 

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I polesani “tipi pittoreschi di vagabondi, anarchici fino al midollo delle ossa, che campano di espedienti, ricchi di miseria, marci di reumatismi e di artrite, quei solitari delle valli che vivono di frodo e di caccia abusiva”, li chiama Gian Antonio Cibotto in Cronache dell’alluvione Polesine 1951 (riedito da La nave di Teseo nel 2021). Lo scrittore rodigino, nelle ore immediatamente successive a quel 14 novembre, si era prodigato per aiutare la sua terra, la sua gente “amante del vino e delle strambe fantasie”: era lì e ha raccontato in prima persona il dramma di un’intera comunità.

«In Polesine, la memoria esiste ed è stata coltivata, grazie anche a grandi giornalisti, poeti, scrittori come Cibotto – secondo Segre – ma nel resto d’Italia e d’Europa è stata anch’essa sommersa, come quelle terre».

 

Un'immagine dell'alluvione del Polesine, dell'Istituto Luce
I profughi del grande fiume, dopo un’iniziale solidarietà sull’onda dell’emotività, vennero ben presto additati per la loro povertà, per il dialetto di campagna, per le mani spaccate dalla terra

 

Da qui la volontà di colmare quell’oblio a partire dal materiale dell’Archivio dell’Istituto  Luce. A Gian Antonio Stella, che più volte si era occupato di quella zona, non ultimo nel suo romanzo Il maestro magro, del 2005, il compito di valorizzare gli archivi: «È stato l’Istituto Luce a chiamarlo ed è stato lui a chiamare me – spiega il regista – L’idea mi è piaciuta molto: avevamo la possibilità di usare in maniera completa e approfondita gli archivi e scavare per trovare materiale inedito, restaurane di nuovo e riportarlo in sala. D’altronde sono riprese fatte per il cinema. Nel ’51 non era ancora iniziata la programmazione televisiva e gli operatori dell’Istituto Luce accorsi nel Polesine filmavano per i cinegiornali. E poi, mi piaceva l’idea di raccontare una storia in cui per una volta i profughi siamo noi; raccontare l’essere profughi e non solo l’accoglierne».

 

 

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Ore e ore di filmati che Segre e Stella hanno selezionato insieme ai montatori, Luca Manes e Chiara Russo: «Ci siamo resi conto che c’era una qualità non solo cinematografica ma anche di sguardo cinematografico: uno sguardo abbastanza raro, proprio perché non erano operatori tv o dei media odierni coi tempi e la velocità del consumo mediatico di oggi. E, soprattutto, giravano in pellicola, non in digitale: dovevano scegliere e saper guardare. Il cineoperatore aveva sviluppato una capacità di sguardo non convenzionale per questo quelle immagini sono così tanto potenti e potenti nel tempo: sono scelte a priori con l’attenzione necessaria per fare una sintesi simbolica. Tutti quei ritratti di persone, che cercano di muoversi con le barche, che scappano dalle case con zattere di fortuna, sono scelti con grande cura, per questo sembrano quasi delle messe in scena».

L’attenzione, d’altronde, “è la forma più rara e più pura della generosità” e senza il tempo necessario è difficile non far venir meno la dignità degli sfollati: non c’è pornografia del dolore nei bambini tratti in salvo, nelle anziane che proteggono i gatti di casa nei cappotti logori, nel bestiame trascinato via dalla corrente.

Una lezione di etica, accanto a quella estetica, che certo gli operatori dell’Istituto Luce non erano consapevoli di fornire ai posteri e che Segre, da raffinato documentarista quale è, ha da tempo dimostrato di aver fatto propria. L’obiettivo della sua macchina da presa posato con garbo sui volti di Gilberto, Galliano, Annamaria, i bambini sfollati del Polesine oggi ottantenni, che raccontano il legame con l’acqua che rimane per sempre, sta lì a testimoniarlo. Che sia un’acqua sempre più inquinata, in costante diminuzione, è purtroppo tutta un’altra storia.

 


Dove vederlo

www.zalab.org

 

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Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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