Sognando Palestina

Un murale ad Amman, Giordania (Foto: Andrea Valdambrini)

«Quando sentì avvicinarsi la fine dei suoi giorni, mia nonna chiese a mio padre di fare un viaggio per lei. “Vorrei che tu vedessi la casa in cui sei nato”, gli disse». Per poterla ritrovare, a tanti anni di distanza, fornì precise istruzioni, incardinate in una memoria che resisteva ad essere cancellata, su quell’edificio uniformemente bianco che si stagliava vicino alla stazione di Haifa. «Mio padre andò, trovò la casa, bussò alla porta. Nulla era cambiato, se non gli inquilini. ‘Cosa cerchi’, gli chiesero. ‘Qui non c’è niente per te’». Kahlill racconta del senso della perdita della patria d’origine, e parla di un passato per lui attuale. Giovane imprenditore nel settore turistico residente ad Amman, la sua famiglia si è trasferita dall’allora mandato britannico di Palestina nella capitale giordana nei primi anni ’40. Ben prima, quindi, della fondazione dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, che ha dato origine a quello che i palestinesi hanno chiamato Nakba, in arabo ‘catastrofe’. Una data che ha segnato il grande esodo di chi abitava l’attuale Cisgiordania verso i Paesi confinanti.

 

Una foto del Jerash Camp
Il campo profughi di Jerash, in Giordania. Fu creato nel 1968 come campo d’emergenza per i profughi palestinesi (Foto: Ahmad Abu Sitteh, © 2013 Unrwa.org)

Vite di palestinesi in Giordania

Oggi Kahlill è a tutti gli effetti un cittadino della Giordania, che ospita il più alto numero di rifugiati palestinesi nel mondo: due milioni, o forse di più (un conteggio esatto è impossibile). Un gruppo è costituito da cittadini giordani a tutti gli effetti, che conservano solo nel cognome il segno di una provenienza diversa. Poi ci sono più di mezzo milione di cittadini privi del numero nazionale giordano, possessori di documenti che devono essere rinnovati ogni anno. Di questa categoria fa parte Fadi, originario di Nablus, in Cisgiordania. Nonostante abiti ad Amman ormai da 25 anni, il suo stato rimane provvisorio. «Molti giordani mi chiedono: ma perché non chiedi il numero nazionale? Il punto è che non è come l’iscrizione in palestra: semplicemente non ne ho diritto. Mia moglie è giordana, ma per il diritto di questo Paese non le è permesso trasferire a me la sua nazionalità. E neppure ai nostri quattro figli». Quando gli chiediamo se pensa di subire una discriminazione, Fadi è chiaro: «Sono in una condizione che non mi semplifica la vita. Sarà anche per via di questo» aggiunge mostrandomi la croce che porta al collo, segno dell’appartenenza alla minoranza cristiana. «Ma so che è per il bene della causa palestinese. La nostra condizione», sottolinea «deriva da una richiesta politica dell’autorità palestinese: quella di non dare numero nazionale e passaporto giordano, per evitare di contribuire al piano di Israele di svuotare la Palestina. Ed io non posso pensare egoisticamente, quando so che c’è una causa più importante».

 

Fadi, palestinese in Giordania e operatore umanitario
Un’immagine di Fadi, palestinese in Giordania e operatore umanitario

 

Un paese accogliente

Il rapporto strettissimo tra Giordania e Palestina è scritto nella storia. L’attuale Cisgiordania, esclusa Gerusalemme Est, è stata governata da Amman fino al 1988, mentre la custodia della Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, come di altri siti religiosi anche cristiani è ancora oggi appannaggio del sovrano ashemita. La monarchia giordana con l’attuale re Abdallah – figlio del longevo Husayn e pronipote di quell’Alì Husayn che nel 1916 guidò, con l’appoggio del britannico Thomas Lawrence (più noto come Lawrence D’Arabia) la sfortunata rivolta per unificare i Paesi arabi contro l’impero ottomano e le mire anglo-francesi – è considerata la principale istituzione a sostegno della causa palestinese, anche se in passato non sono mancati contrasti con l’Olp. Prima ancora di iracheni e siriani, in fuga dalle guerre che da fine Novecento si sono succedute nei rispettivi Paesi, la Giordania ha quindi accolto due grandi ondate di palestinesi in fuga. Una si è generata dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, l’altra a seguito della guerra dei Sei Giorni (1967), entrambe vinte dall’esercito di Tel Aviv. Ecco perché il regno ashemita ospita sul suo territorio una decina di campi profughi, più o meno grandi e densamente popolati.

I più grandi hanno la dimensione di vere e proprie cittadine, come quelle di Baqa’a che ne conta più di 100.000.

Dalle scuole ai rifiuti, i servizi all’interno dei campi sono gestiti non dal governo di Amman ma dall’Onu attraverso un’agenzia appositamente creata (Unrwa).

Gaza Jerash solo andata

Quello che versa in condizioni più critiche è certamente il campo di Jerash, nel nord del Paese, che ospita circa 30.000 palestinesi di Gaza. A pochi chilometri dalle rovine romane più visitate e meglio conservate del Medio Oriente, si aprono le porte di un mondo fatto spesso di miseria, affollamento, condizioni sanitarie al limite.

«Il 52% dei residenti ha un reddito inferiore alla soglia di povertà, l’88% è privo di copertura sanitaria»

si legge nel rapporto sulla condizione del campo stilato nel 2013 dal FaFo, un istituto di ricerca norvegese (non a caso, gli accordi di pace del 1994 furono firmati a Oslo). Mentre sul sito dell’Unrwa troviamo che «Mancano i servizi di base e diritti come l’accesso alle scuole pubbliche, al pubblico impiego e alla sanità (…) Nel corso degli anni il campo molte abitazioni provvisorie sono state rimpiazzate da strutture in muratura. Molti tetti però sono composti in zinco e amianto». Inoltre, per la legge del Paese che li ospita, i profughi di questo campo subiscono numerose restrizioni, come quella di non poter lavorare. La parola chiave di un campo profughi dovrebbe essere provvisorietà. Sia materialmente che esistenzialmente, questi luoghi sono destinati a essere superati, per portare i suoi abitanti a condizioni di vita più stabili e dunque migliori. Ma il caso dei palestinesi di Gaza è diverso. Essere provvisori da 50 anni è un paradosso. Chiedo ancora a Fadi – che ad Amman lavora nella cooperazione per l’ong italiana Avsi e conosce bene la realtà del campo di Jerash – che futuro si può immaginare per questi invisibili. Mi spiega con un’iperbole che se anche arrivasse Bill Gates promettendo case nuove di zecca, nessuno accetterebbe. Gioca il senso della vergogna rispetto ad una decisione non condivisa dalla collettività, ma soprattutto l’orgoglio di provare a migliorare la propria condizione restando comunque nel campo. Ricorda cosa gli disse una donna sui 50 anni che lavorava per assistere le altre donne del campo. «La mia famiglia è scappata da Gaza, ma il mio villaggio di origine è a Tel Aviv. Oggi si trova probabilmente sotto un centro commerciale o un’autostrada. Io ormai sento di appartenere a questo campo».

 

Una scalinata con la scritta FREE PALESTINE ad Amman, in Giordania (Foto: Andrea Valdambrini)
Uno scorcio del centro di Amman, la capitale giordana (Foto: Andrea Valdambrini)

 

Saperenetwork è...

Andrea Valdambrini
Andrea Valdambrini
Giornalista, laureato in Filosofia, ha cominciato sbagliando tutto, dato che per un quotidiano oggi estinto recensiva libri mai più corti di 400 pagine. L’impatto con il reportage arriva quando rimane bloccato dalla polizia sotto la Borsa di Londra con i dimostranti anti-capitalisti. Tre anni nella capitale inglese, raccontandola per Il Fatto Quotidiano, poi a Bruxelles, dove ha seguito le elezioni europee del 2014 e del 2019. Nel 2024 rischia di fare lo stesso, stavolta per Il manifesto.

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