Il ventinovesimo giorno

Il ventinovesimo giorno

Da quanto tempo il Pianeta ci invita a fermarci e a metterci in quarantena? L’epidemia assomiglia più a un ritorno prepotente e inaspettato di quella “wilderness” che abbiamo distrutto e dimenticato che non a una prova generale dell’apocalisse. Oggi, nel cinquantesimo anniversario della Giornata Mondiale della Terra, suona ancora di più come un invito a smetterla di far finta di niente

Chapel Hill, North Carolina, 22 aprile 2020, Earth Day #50. Mai avrei pensato di celebrarlo a casa, confinata come tutti nella mia ecologia privata, in un angolo qualunque del mondo. Da questo micro-oikos, faccio capolino per condividere una nota che ho scritto all’inizio della pandemia. Il tema è la crescita esponenziale, esattamente quella che abbiamo conosciuto da quando, a fine gennaio, i casi di Coronavirus si sono moltiplicati in pochi giorni e, da pochissimi e limitati, sono diventati centinaia di migliaia in tutto il mondo. Oggi, sono 50 anni che il pianeta ci invita a metterci in quarantena. La mia domanda è: vale ancora la pena fare finta di niente?


Il principio è quello delle ninfee. Se in uno stagno si moltiplicano raddoppiandosi e il ventinovesimo giorno la superficie è coperta per metà, quanto ci vorrà perché lo stagno si copra del tutto?

È un ragionamento che anni fa aveva fatto Lester Brown, il fondatore del Worldwatch Institute. Lui parlava dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica, di scenari futuri che siamo chiamati a scongiurare in tempo, ma in realtà tutto è già qui. E tout se tient: prove tecniche di fine del mondo. Non è il caso di essere apocalittici, certo: perché una soluzione si troverà (a quale costo, è un altro discorso).

 

Lester Brown
Lester Brown è un agronomo, scrittore e ambientalista statunitense. Ha scritto oltre venti libri sui problemi ambientali globali

 

Ma è giusto riflettere sui collegamenti, sulle interdipendenze: sul fatto che gli habitat che lasciamo alle altre specie si assottigliano e l’inquinamento delle nostre megacittà non giova, sul fatto che la sesta estinzione passa anche per la nostra biodiversità interna, per la calante capacità di difenderci dagli attacchi del non io che entra di soppiatto nella nostra vita, nel nostro bios. 

La neo wilderness

Con i miei studenti della University of North Carolina, proprio pochi giorni prima che ci trasferissimo nell’aula virtuale, discutevamo della wilderness, la natura selvaggia. La wilderness è quella natura, fatta di animali feroci e foreste primordiali, che faceva spavento ai padri pellegrini, e che poi si è cominciato a proteggere con i parchi nazionali, o a idealizzare, facendone una specie di paradiso perduto.

Molti dicono che la wilderness, se pure è mai esistita, oggi non esiste più, sommersa dalla nostra impronta onniavvolgente. In realtà però c’è, eccome: basta saperla cercare.

Perché la wilderness non è più nelle galassie di boschi impenetrabili o nell’ululato dei lupi, ma è nascosta nella fauna selvatica sui banchi dei wet markets orientali, è nelle cellule, nelle goccioline di saliva che accompagnano le nostre conversazioni, le nostre risate, il nostro respiro.

Il coronavirus è la wilderness. E la wilderness è anche la nostra paura, che riemerge dallo stomaco profondo di terrori filogenetici. La natura selvaggia è anche l’umano. E se ci guardiamo dentro, scopriamo che l’umano è un’idea-coperta. Copre più di quanto non riveli. Copre le differenze, che ci sono, e che bisogna riconoscere per poterle capire, in quest’epoca di “sovranità” intolleranti redivive. E copre l’infinità di altri esseri che ci abitano: dai batteri, molti dei quali ci aiutano a sopravvivere, ai virus, che invece possono farci morire

Siamo selvaggi e plurali nelle nostre cellule, nel nostro patrimonio genetico, nel nostro ecosistema interno, nella nostra paura dell’altro e nella nostra paura di fare a meno dell’altro.

L’ululato del lupo, un invito a proteggerci

Quale lezione trarre da tutto questo? Difficile dirlo. Del resto, risposte poche e domande tante, in questi giorni. Forse ascoltare l’ululato del lupo che viene dalle nostre cellule oggi ci può aiutare a sopravvivere. La nostra evoluzione ci ha regalato la socialità come strategia di sopravvivenza proprio per proteggerci dai lupi e dalla wilderness che mordeva da fuori.  Ora che il predatore è dentro, abbiamo bisogno di uno scatto evolutivo che ci aiuti a preservare la nostra socialità anche a costo dell’isolamento. Lo stiamo facendo, e si spera avrà i suoi frutti.

Ma perché non fare il passo successivo e capire che questa pandemia ci sta dicendo anche altro?

Per esempio, che questa wilderness, questa natura selvaggia che stiamo scatenando, è in realtà frutto di una cultura selvaggia. E che l’ululato del lupo, oggi, è la voce di quegli ecosistemi morenti che chiedono di tornare a respirare, dell’atmosfera che chiede di essere protetta, proprio come oggi le nostre città. È  la voce delle persone che non avevano protezione ieri quando tutto era “normale” e ne avranno ancora meno (crescendo di numero) dopodomani, quando la normalità rischia di coincidere con l’emergenza esponenziale della crisi climatica. Perché non sentirla, questa voce?

 

Guarda il video dell’Ipcc sul cambiamento climatico

 

 

Insomma, non si potrebbe prendere il Covid-19 come un invito a proteggerci dalle brutte sorprese che conosciamo da 50 anni, anziché come prova generale dell’apocalissi? A queste domande c’è una sola risposta possibile. Oggi lo stagno è a metà. Forse vale la pena tentare.

Saperenetwork è...

Serenella Iovino
Serenella Iovino è una delle voci più accreditate del dibattito sulle scienze umane per l’ambiente. Scrive di filosofia, paesaggi, letteratura e giustizia ambientale. È professore ordinario di Italian Studies and Environmental Humanities alla University of North Carolina at Chapel Hill.

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