Piano, pianissimo. Un piccolo passo dopo l’altro, saggiando col piede la corda tesa, auscultando i muscoli e il respiro, le braccia sul bilanciere, a 410 metri da terra. Ma non è la terra che si guarda. È la meta. Alla fine del filo, sospesa nel cielo. La trepidazione di questo tempo di vigilia estesa ed estenuante, in attesa del “tana libera tutti” che di giorno in giorno ci ha condotto in questa terra promessa che abbiamo battezzato la Fase 2, ha rievocato la passeggiata visionaria e folle di Philippe Petit tra le Torri Gemelle.
4 maggio: milioni di italiani tornano a lavoro e si può uscire di più. La Fase2 https://t.co/DAFrrIYRBY pic.twitter.com/RyMi1oVH67
— Zazoom Social News (@zazoomblog) May 4, 2020
A fatica lungo un filo sospeso
«L’arte del funambolo – ha scritto Paul Auster nella prefazione alla biografia di Petit – è un’arte della solitudine, un modo di fare i conti con la propria vita nel buio, nell’angolo più segreto di noi stessi. Ci fa sentire tutti parte della stessa umanità, mentre guardiamo qualcuno che si esibisce su un palcoscenico di tre centimetri, sottoposto al massimo della costrizione, che pure suscita la sensazione di una libertà infinita». E ancora:
«È la ricerca umana per la perfezione. Chiunque abbia cercato di fare qualcosa nel migliore dei modi, chiunque abbia fatto sacrifici per un ideale, sa di cosa sto parlando C’è il rischio, la paura della morte, la catastrofe, eppure questa è un’arte della vita, della vita vissuta all’estremo. Che è come dire che la vita non può nascondersi dalla morte, ma può guardarla dritto in faccia, con immediatezza, eroismo e persino gioia».
Ricomporre la frattura tra noi e il mondo
L’arte del camminare sul filo, dunque, ci riguarda. Perché abbiamo sperimentato la fatica dell’isolamento e del disadattamento, i fantasmi della paura e ogni sfumatura dell’umana fragilità rispecchiata in quella del mondo cui sentivamo di appartenere. Perché ci ha costretto a rivedere i tempi e i modi e ridotto alla famiglia del sangue a scapito di quella elettiva e per molte donne è stata una (ennesima) discesa all’inferno. Perché è stata e sarà la famiglia a farsi carico in presenza della scuola “distante”, dei bisogni dei più deboli (bambini, disabili, anziani…) inascoltati per decreto e della frattura tra sé e il mondo che l’evento pandemico ha finalmente smascherato.
Ci siamo ammalati da individui perché è la società, vale e dire il terreno, come direbbe il medico francese Antoine Bechamp con buona pace di Pasteur, a frammentarci, disumanizzando l’umano, ormai da decenni.
F come (ri)Fondare
Dal divano di casa alla Torre Sud sulla corda, cercando di non sfracellarci al suolo, non è cosa da poco. Ma adesso ci aspetta la parola più bella e più temibile del presente, il suo seme, il futuro. Possiamo? Vogliamo? In moltissimi parlano di questa inimmaginabile crisi come di una opportunità altrettanto unica. Che toglie il respiro, tanto potrebbe essere epocale: sovvertire l’ineguaglianza ovunque si manifesti, generare pace, rifondare l’economia, ripartire rispettando la terra e gli animali. Perché si sono ammalati i nostri polmoni, l’organo del respiro e organo sociale per eccellenza. Ora però ci vuole fegato: è lì che abita il coraggio, la volontà di trasformare un pensiero, un’intenzione, in una decisione e poi in un’azione concreta. E ancora non basta. Insieme al coraggio ci vuole un elemento imponderabile di cui i bambini sono colmi, la fiducia, ché senza non si potrebbe sostenere la venuta la mondo.
In frontiera, con fiducia
Esitando sul filo, vogliamo avere fiducia che le famiglie tutte saranno sostenute, nel modo più illuminato e degno possibile perché è questa la frontiera dove si riverserà il malessere dei sopravvissuti: la povertà dei genitori e il disagio dei figli. Questi nostri bambini e ragazzi che hanno rispettato le regole, protetto i nonni, rinunciato alla socialità, ingurgitato ore di video-tutto e ora soffrono di solitudine, di ansia e di insonnia, si ribellano e si deprimono, invocando a gran voce gli amici, i compagni, la scuola. Ecco, appesa al filo, vogliamo avere fiducia che Daniela Lucangeli, appena nominata nel pool del “Comitato di Esperti” del Ministero dell’Istruzione possa contribuire in modo decisivo a formulare «proposte per la scuola con riferimento all’emergenza sanitaria in atto, ma anche guardando al miglioramento del sistema di istruzione nazionale».
Fondamenta e Futuro
La Lucangeli, prorettrice e professore ordinario in Psicologia dell’educazione e dello sviluppo presso l’Università di Padova, è da sempre particolarmente attenta al mondo dell’educazione e delle disabilità dell’apprendimento: le sue competenze e la sua profonda umanità potranno riprogettare la scuola pensata come luogo di vicinanza che conta sul potenziale di ciascuno e nell’insegnante come differenziale di sviluppo. Su una scuola, parole sue, che non è “io insegno, tu apprendi, io verifico” ma una co-costruzione di conoscenze condivise attraverso la guida di chi accompagna all’apprendimento. In tutti quegli insegnanti che pensano a loro stessi in qualità di educatori e non di istruttori abbiamo immensa e piena fiducia mentre gridano inascoltati di riaprire le classi, di pensare alla scuola in grande, alla “scuola come vita, scambio, crescita, conoscenza, creazione dell’uomo futuro.
La scuola è fondamenta. Smettete di relegarla a un ruolo che la mette in una scatola di fiammiferi, come si legge su un post che rimbalza di profilo in profilo.
Fino a quando…
Abbiamo o fiducia in una scuola del fare perché prima di entrare nel virtuale i bambini hanno necessità di penetrare il loro fisico fino alla punta dei piedi e di fare esperienze reali: i lobi frontali impiegano due buoni settenni a svilupparsi, raggiungere capacità di autocontrollo e pensiero indipendente è un processo che ha bisogno di 16 anni di sviluppo neurologico sano. Ed è di realtà e di fisicità che hanno – abbiamo tutti – ancora più bisogno, dopo quasi due mesi di esilio forzato. Perché non sia tutto vano, per non smarrire senso e fratellanza, ho fiducia che sia adesso, tra pochi metri, come il titolo del primo romanzo di Primo Levi, perché “Se non ora, quando?”.
Saperenetwork è...
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Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.
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