Matera e le sue sorelle, viaggio nell’Italia delle politiche culturali
L’anno da Capitale europea della cultura di Matera è trascorso. Ma qual è lo stato di salute delle politiche culturali in Italia? Il nostro viaggio fra le pratiche, più o meno buone, delle amministrazioni che investono nella valorizzazione del patrimonio. Mentre Parma è ai blocchi di partenza
Torna all’articolo portante: Parma 2020, la città del futuro tra ecologia e cultura è già qui di VALENTINA GENTILE
Diciannove euro per diventare cittadino temporaneo della capitale europea della cultura. È il costo del passaporto per Matera 2019 che consente di partecipare a tutti gli eventi del programma ufficiale: 48 settimane di programmazione, 800 operatori e artisti da tutto il mondo, più di 50 produzioni culturali originali, cinque grandi mostre. A pochi chilometri, le due grandi città italiane che investono meno per la tutela e valorizzazione dei beni e delle attività culturali: Reggio Calabria in termini assoluti (2,4 milioni di euro nel bilancio comunale 2017) e Napoli, se consideriamo la spesa pro capite (13,53 euro). Con pochi dati si riassumono le contraddizioni di un’Italia a macchia di leopardo, spesso malata di provincialismo, dove anche in ambito culturale sono forti le disparità Nord-Sud. Eppure, secondo alcune statistiche internazionali, il nostro è il primo Paese al mondo per la sua influenza culturale. Un primato legato non solo alla produzione e al patrimonio storico, ma anche alla capacità di trasmettere cultura e bellezza nelle produzioni artistiche e industriali.
Lavoro culturale
Secondo il rapporto “Io sono cultura” di Fondazione Symbola e Unioncamere, il sistema produttivo culturale e creativo in Italia vale 92,2mld di euro e il valore aggiunto sul resto dell’economia ammonta a 163,3mld per un totale della filiera culturale di 255,5mld di euro (il 16,6% del Pil). Lo studio registra dinamiche in crescita tra il 2016 e il 2017 per il settore produttivo (+2%) e per l’occupazione (+1,6%).
Chi lavora nel settore culturale – 1,5 milioni gli occupati – ha una formazione più qualificata rispetto alla media degli altri settori: il 42% è laureato, contro il 21,1% del resto dell’economia, il 33,1% in architettura, urbanistica e ingegneria civile, il 15,5% in lettere, linguistica, storia, filosofia, archeologia, religione, beni culturali.
Luci e ombre vengono messe a fuoco nel rapporto “Impresa cultura” 2018 di Federculture. Il volume sottolinea problemi irrisolti, antichi e nuovi, riflette sulle criticità e le debolezze del sistema dell’offerta e della produzione culturale, ma individua anche gli obiettivi per il prossimo futuro delle imprese culturali e di tutti i soggetti pubblici e privati che operano nel settore. Fruizione e partecipazione dei cittadini alla vita culturale del Paese sono tra i principali temi sui quali richiama l’attenzione, evidenziando la necessità di ampliare il pubblico dei fruitori attraverso il sostegno al consumo culturale. Tra le criticità si individua il fatto che è ancora molto alta la percentuale di italiani adulti culturalmente inattivi, 38,8%. In alcuni ambiti l’assenza di pratica culturale raggiunge anche l’80% (teatro), o il 90% (concerti classici). I dati più allarmanti si registrano nel Mezzogiorno, dove l’inattività culturale riguarda otto-nove cittadini su dieci.
Sud profondo
Se Matera è la «città simbolo del Mezzogiorno d’Italia che vuole innovare e crescere», come ha ricordato Sergio Mattarella durante la cerimonia d’inaugurazione dell’anno magico per la città dei sassi, altri territori del Sud arrancano. «Le risorse europee sono incanalate essenzialmente sulle strutture, a partire da restauri e musei. Le Regioni del Sud hanno il problema della gestione dei beni e quello di garantirne la sostenibilità», denuncia Vincenzo Santoro, responsabile cultura e turismo dell’Anci. Un caso clamoroso si è manifestato a Manfredonia (Fg) per la l’installazione permanente di Edoardo Tresoldi (uno dei giovani artisti più influenti d’Europa secondo Forbes), una ricostruzione in rete metallica dedicata alla Basilica paleocristiana di Santa Maria, voluta dal Ministero per i beni e le attività culturali per il Parco archeologico “Le Basiliche” di Siponto (Fg): «Di punto in bianco l’afflusso è decollato, ma non è stato gestito al meglio e l’accesso al sito si è rivelato complicato», afferma Santoro.
Alle difficoltà croniche dei bilanci dei Comuni si è cercato di ovviare rafforzando la possibilità di partenariati pubblico-privato o con il provvedimento legislativo voluto dal ministro per la Cultura Dario Franceschini, l’Art bonus, che, secondo Santoro «ha favorito il mecenatismo culturale soprattutto al Centro Nord, dove fondazioni bancarie, grandi e piccoli donatori hanno finanziato beni e attività».
L’humus culturale della Penisola, nonostante evidenti difficoltà, è molto fertile e diffuso. Il piccolo paese di Mamoiada in Sardegna, noto per il carnevale caratterizzato dalle ancestrali maschere dei Mamuthones e degli Issohadores, riesce ad accogliere decine di migliaia di turisti. In quest’angolo della Barbagia, il Museo delle maschere mediterranee viene visitato ogni anno da 28mila persone e organizza frequenti scambi a livello internazionale con musei, istituti culturali e associazioni. Altro esempio positivo nel profondo Sud: il lavoro della cooperativa CoopCulture per la gestione del Museo archeologico Antonio Salinas di Palermo, che custodisce le metope dei templi di Selinunte, il più importante complesso scultoreo dell’arte greca d’Occidente.
Innalzare il grado di civiltà collettivo
Ma come si investono i soldi pubblici per la cultura? Una risposta sintetica al quesito ce la dà Cristian Carrara, compositore, direttore artistico della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi (An) e presidente della commissione cultura del Consiglio regionale del Lazio fino al 2018:
«In Italia le risorse dedicate alla conservazione di siti archeologici, edifici storici e altri luoghi della cultura non sono poche, d’altronde il patrimonio culturale materiale del nostro Paese è vastissimo. Più complessa è la situazione dei finanziamenti per la produzione culturale di beni immateriali, dalla musica al cinema, dal teatro alla danza. Sono disponibili meno fondi e il settore è estremamente variegato e frammentato».
Una delle idee dominanti sulle modalità di finanziamento è che il pubblico debba sostenere principalmente strutture a partecipazione pubblica – a Roma, il teatro dell’Opera e il teatro Argentina, per esempio – che, di conseguenza, dovrebbero produrre solo ciò che le Amministrazioni statali, regionali, locali, dicono sia cultura. Agli altri soggetti, privati, rimangono solo briciole, finanziamenti pensati più come contributi a pioggia che come effettivo sostegno alla crescita e allo sviluppo dell’impresa culturale. A questo punto sorgono altre domande che non sempre trovano risposte adeguate: come sostenere la crescita delle imprese private (teatri, cinema, società di produzione di spettacoli, ecc.) e la produzione di beni culturali non esclusivamente commerciali? Come farlo senza che ciò si configuri come aiuto di Stato? «Non è sufficientemente chiaro, dal punto di vista normativo e pratico, come vengano distribuiti i fondi ai privati e quali debbano essere i parametri per determinare l’efficienza di un’impresa o la qualità di un’opera culturale», sostiene Carrara. Le questioni aperte, insomma, sono parecchie: chi è in grado di valutare quantitativamente e qualitativamente una produzione culturale? Regioni e Comuni sono in grado di farlo? Non è facile rispondere, anche perché non è per niente semplice misurare il ritorno di una produzione culturale:
«La cultura produce vantaggi per la collettività non quantificabili in maniera diretta, come civilizzazione e coesione sociale, e dunque è giusto finanziare con risorse pubbliche anche opere apparentemente non sostenibili, ma che innalzano il grado di civiltà collettivo», conclude Carrara.
Eco e i bisogni fondamentali degli esseri umani
A proposito di cultura, in un editoriale di qualche mese fa su Repubblica, Stefano Bartezzaghi citava Umberto Eco:
«Una volta Umberto Eco si trovò a scrivere un suo elenco dei bisogni fondamentali degli esseri umani, uomini e donne. I bisogni fondamentali si limitano a cinque: nutrirsi, riposare, amare, giocare, chiedersi perché. Nutrirsi è di tutti gli esseri viventi, anche delle piante; riposare è di tutte le specie animali; provare amore e giocare sono comportamenti propri a molti mammiferi; chiedersi perché – per quel che ne sappiamo – è degli esseri umani e solo di essi».
Un libro, un’opera teatrale, un parco archeologico, un tessuto urbano, una sinfonia, un giardino storico sono opere che ci aiutano a rispondere a quella domanda esistenziale che ci caratterizza come specie. Ecco perché, al di là di un’indubbia opportunità economica, è così importante conoscere, valorizzare, preservare, e incrementare il patrimonio culturale del nostro Paese, spesso svalutato o misconosciuto.
Saperenetwork è...
- Giornalista e architetto, collabora con La Repubblica e La Stampa; ha scritto anche per L'Espresso, Vita, Il Gazzettino, Messaggero Veneto. Lavora a Roma per una società internazionale di relazioni pubbliche e comunicazione. Ha lavorato in uffici stampa di Istituzioni nazionali e in agenzie private, è autore di saggi e volumi d’interesse regionale.