A tu per tu con i ribelli del clima
Imbrattano le opere nei musei, ovviamente protette da vetrate, con vernice e zuppa di piselli. Organizzano blocchi sulle grandi arterie viarie. Chi sono? E cosa li spinge e compiere gesti tanto estremi? Abbiamo incontrato Beatrice e Michele, due esponenti di Ultima generazione
Sabato pomeriggio, quadrante est della Capitale. Mi hanno chiesto con quante persone desidero parlare e all’appuntamento sono in due. Giovani, ma non giovanissimi, si avvicinano ai trenta. Il giorno prima, a Milano, un gruppo di persone della loro organizzazione, Ultima Generazione, ha buttato otto chili di farina su un monumento della pop art: la Bmw dalla carrozzeria dipinta da Andy Warhol nel 1979, esposta alla Fabbrica del Vapore. Solo due settimane prima, alla mostra su Van Gogh allestita a Roma a Palazzo Bonaparte, è stato il vetro di protezione del quadro Il Seminatore a essere centrato con della zuppa di piselli. Nell’arco dello stesso mese, sempre a Roma, il blocco stradale del Grande Raccordo Anulare e un altro vicino al Colosseo. Quello in viale Marconi, la sera di Halloween. Senza dimenticare l’imbrattamento della facciata della Cassa Depositi e Prestiti, con estintore e vernice arancione. Qui come altrove, qualche palmo di mano incollato alla parete, un gesto ricorrente degli attivisti. Non solo. Ci sono stati il blocco del traffico all’aeroporto di Linate e l’interruzione della parata di auto d’epoca a Padova, per citare solo alcune delle azioni recenti di questa campagna di disobbedienza civile nonviolenta attiva in Italia dal 2021. Ma anche in altri dieci paesi del mondo, progetti interconnessi dalla rete A22 e “impegnati in una folle corsa: provare a salvare l’umanità”. Dal cambiamento climatico.
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Al nostro governo Ultima Generazione chiede lo stop alle trivellazioni di gas naturale e alla riattivazione delle centrali a carbone, l’attivazione immediata di 20GW di energie rinnovabili, fra eolico e solare, creando così nuovi posti di lavoro per chi opera nell’industria fossile.
Beatrice e Michele rispondono a turno, senza togliersi mai la parola. Sono dei rivoluzionari. Forse degli ottimisti.
Sottolineate l’ipocrisia di chi si scandalizza per un possibile danno all’arte, quando il cibo sta finendo. Ma dalle risposte che arrivano, anche nei commenti su Facebook, pare che le persone non lo capiscano.
B: Non so se capisce che il cibo sta finendo, ma immagino che la gente sia sempre più disperata all’idea di reperirlo. Io inizio ad avere l’angoscia per la spesa, con i prezzi che aumentano. Forse le persone associano l’aumento alla crisi energetica e si immaginano che sia qualcosa di transitorio. Ma quest’anno solo in Italia abbiamo perso il 30% di grano. Siamo uno dei paesi europei più colpiti dai cambiamenti climatici. Più di un quarto del nostro territorio sarà desertificato, quando iniziamo a coltivare in modo sostenibile?
La farina sulla macchina di Warhol può essere vista come un gesto colto: la prosecuzione della sua provocazione, non solo farina al posto della benzina. Era nelle vostre intenzioni? E come nascono le vostre azioni?
M: Ci sono tanti piani di lettura e tanti piani del funzionamento comunicativo e semantico di un’azione di disobbedienza civile costruita. Ce n’è sicuramente uno estremamente colto, quello che rimanda all’arte: la scatola di pomodoro sulla teca di Van Gogh che rimanda semanticamente ad altre opere e a un mondo artistico. La pubblicità lo fa continuamente. Però non conta solo la comprensione, a livello di efficacia comunicativa, anzi è la parte minima. La nostra azione scandalizza per lo spreco della farina? Allora lo sai che c’è lo spreco alimentare! È la legge del capro espiatorio. Noi giochiamo all’interno di quel gioco lì, per riuscire a far parlare molto di noi e di conseguenza del cambiamento climatico. Il punto, però, è se la gente sta capendo qualcosa di molto più profondo. Le persone che cambieranno questo mondo e il paradigma con cui affrontiamo la società non lo faranno perché sono particolarmente politicizzate o perché pensano alle parti per milione di co2 o altro. Sono persone che capiranno in maniera imperfetta quello che sta succedendo, che ci sono vari piani del problema, e uno di questi è la totale immoralità, la totale mancanza di sincerità che dilaga a tutti i livelli del potere. La vera cosa da comunicare è ‘ma sei ancora contento di far parte di questa bugia o no?’. È questo che cambierà il mondo. Non è l’ambientalismo. L’ambientalismo è morto politicamente.
Non vi considerate ambientalisti quindi?
M: No assolutamente
In qualche commento ho letto che fareste meglio a seguire l’esempio di Greta che con il suo modo di protestare ha ottenuto molto di più.
B: Anche Greta è stata coperta di odio e di contestazioni. Ora appare un po’ come quella ragionevole e moderata. Gli ambientalisti moderati hanno un riconoscimento che prima non avevano. Peraltro ha iniziato con un atto di disobbedienza civile: scegliere di non andare a scuola ogni venerdì e di manifestare, se fosse stato fatto da tutte quelle migliaia di persone che invece facevano cortei, sarebbe stato un atto di protesta immensamente più efficace.
M: Greta nel 2018 era un po’ strana per alcuni e anche un po’ odiata. Adesso anche alcuni giornali di destra ci dicono di fare come lei. I media mainstream sono fatti per elogiare i movimenti moderati perché sono completamente inefficaci e per dire che quelli radicali non funzionano. Greta Thunberg non è mai stata inaccettabile, è stata radicale. E quello che faceva adesso è accettabile, addirittura normale. Noi siamo partiti dall’inaccettabile, il nostro inaccettabile sta diventando radicale, tra poco sarà accettabile e tra qualche anno normale, e il regime finisce. Fare politica, come diceva Martin Luther King, non vuol dire cercare consenso, vuol dire costruirlo. Proporre qualcosa che all’inizio sembra assurdo e andare avanti perché hai ragione.
Quello che fate viene percepito come violento, nonostante siano azioni nonviolente. Li pensate come gesti nonviolenti oppure no?
B: In alcune esercitazioni pratiche facciamo un gioco in cui le persone si dispongono lungo una linea, a un capo c’è l’assoluta nonviolenza e all’altro la violenza, a seconda delle situazioni che vengono proposte, per esempio un blocco stradale. Il punto è che non c’è mai un posizionamento unico delle persone, il gruppo si muove continuamente. Questo vuol dire che l’idea di nonviolenza di ognuno è molto soggettiva, ed è impossibile creare un’unica opinione intorno a una situazione. È il motivo per cui le nostre azioni sono efficaci. Provocano un dibattito intorno a quello che è stato fatto, inizialmente, poi il nostro scopo è spostarlo sulle nostre richieste al governo. Per me è estremamente violento non fare nulla, perché ha le conseguenze più terribili che possiamo immaginare. Molto più terribili del fare qualcosa di nonviolento, che magari è radicale e mal visto.
M: La nonviolenza è una parola tremenda, perché non è una parola comprensibile. Gandhi non la usava. Martin Luther King non la usava. I più grandi riformatori del secolo scorso non hanno usato la parola nonviolenza. A me piace “conflitto creativo” di Martin Luther King. Perché c’è un’idea molto chiara: quella del conflitto. Chi fa delle marce autorizzate, non è un nonviolento, è semplicemente una persona che sta facendo una cosa classica. Martin Luther King lo dice in questa maniera: nonviolenza è la forza che ti permette di usare tutto te stesso per rimuovere un’ingiustizia. La nonviolenza, secondo la sua definizione, provoca violenza.
La gente confonde nonviolenza con tranquillità e ordine, dice che è violento quello che facciamo perché provoca violenza.
È una cosa diversa. Quando i Freedom riders nel 1961 hanno cominciato a prendere degli autobus interstatali nel sud degli Stati Uniti col Ku klux Klan che li rincorreva in macchina per ammazzarli, si sono fatte male centinaia di persone che non c’entravano niente coi Freedom riders. Ogni conflitto nonviolento provoca la morte sia di persone che cercano di rimuovere l’ingiustizia, sia di persone attorno, e questa è la Storia. Gandhi chiamava guerra la nonviolenza.
Mi stai dicendo che bisogna arrivare a scatenare un certo tipo di conflitto per arrivare a un risultato?
M: Sì, ma non è la mia opinione, è provato statisticamente.
B: È qualcosa che arriva naturalmente. Nel momento in cui cresci di numero, e se non cresci non otterrai risultati, a un certo punto la repressione si genera. Se non immaginiamo di arrivare a quel punto e di superarlo, stiamo perdendo in partenza.
M: Ci si arriva spontaneamente il più delle volte. Noi stiamo facendo da apri-strada; stiamo riportando una voce radicale e razionale su come si configura un conflitto sociale.
Dalle reazioni attuali sembra che la gente non vi capisca, come pensate di fare passare il messaggio?
M: Andando avanti. Ci sono due tipi di consenso: quello verso le richieste e quello verso di te. Tra i due, il primo è molto più importante. Meno di un anno fa, Insulate Britain, l’organizzazione da cui è nata Just stop oil, con 120 persone per sette settimane ha occupato le autostrade. La popolazione intervistata era a favore per il 20%, decisamente contraria quasi per il 70% e c’era una componente minima di indifferenti. A fine ottobre, il Guardian ha pubblicato un nuovo sondaggio sulle azioni di Just stop oil: il 66% del campione ha detto di supportare il fatto che bisogna fare resistenza civile per costringere il governo ad agire. L’opinione pubblica cambia, e cambia se sei credibile. Noi, siamo già in parte soddisfatti considerando che 60 persone hanno preso parte alla resistenza civile da quando esistiamo.
B: Man mano che una campagna ha successo, oltre a influenzare l’opinione pubblica, porta altri gruppi ad agire e a trovare la propria collocazione, e il numero di persone che entrano nella resistenza civile aumenta. Questo aumento ha, inoltre, come naturale conseguenza la diversificazione delle tattiche. Non tutti per forza devono fare quello che facciamo noi. Se il punto è ‘dobbiamo fare qualcosa’, ogni gruppo, ogni persona si interrogherà su che cosa può fare. E anche la diversificazione delle tattiche allarga il consenso, perché l’opinione pubblica inizia a intercettare quello che le risuona di più tra tutto quello che viene fatto.
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Il terzo tipo di azione che fate è il digiuno. Di digiuno si muore. Fino a dove vuole arrivare chi lo fa?
B: Sicuramente è un’azione controversa, secondo alcune persone altrettanto violenta di un’azione di disobbedienza civile. Le ragioni e i contesti in cui lo abbiamo fatto sono diversi: c’è la situazione in cui il tuo target è una persona che non ti presta ascolto, non ti dà lo spazio di incontrarla. L’altra situazione è la condizione in cui non puoi fare più niente, però non accetti di desistere. È la situazione di tante persone che sono in carcere o non hanno più veramente mezzi per farsi ascoltare e ricorrono allo sciopero della fame per proseguire e mantenere una dignità. Non c’è nessun tipo di passività. Una volta che accetto le possibili consegue legali, posso fare un’azione di resistenza civile. Una volta che accetto l’incognita delle conseguenze fisiche, posso fare uno sciopero della fame. Questo ti riporta nelle condizioni di decidere tu che cosa sarà di te stessa.
Dal governo e dalle opposizioni, avete avuto risposte alle vostre richieste?
M: A fine ottobre il governo uscente ha fatto uno sblocco di 11,6 GW di eolico e solare, che è il più grande sblocco dal 2011 quando eravamo avanti e competitivi e se avessimo mantenuto quel passo avremmo già raggiunto gli obiettivi al 2030. Ovviamente non l’abbiamo causato noi, però c’è una correlazione con quello che facciamo. Abbiamo parlato più volte con Cingolani e abbiamo parlato con rappresentanti di quasi tutte le forze politiche. Gli unici che ci hanno appoggiato sono Europa verde e Sinistra italiana. Non abbiamo mai avuto un tavolo di negoziato col governo, siamo molto lontani dall’avere quella forza.
La repressione che potrebbe essere messa in atto vi spaventa?
B: È una domanda complessa. Qualche segnale di repressione lo stiamo già iniziando a vedere. Le campagne della rete A22 stanno già iniziando a vedere delle misure molto più severe nei loro confronti rispetto a quando hanno iniziato. Ci sono persone in carcere in Inghilterra e in Germania, in Svezia e negli Stati Uniti dove ora l’equivalente delle nostre azioni in alcuni stati comporta fino all’ergastolo. Stiamo parlando di cose inconcepibili in una democrazia e stiamo arrivando a questo punto. Qui in Italia, anche semplicemente per il fatto che stiamo crescendo di numero, prima o poi anche le misure legali aumenteranno e saranno più severe, ed è una parte che dobbiamo affrontare. È necessario mettere in luce la violenza in questo sistema. È chiaro che avere persone che vengono incarcerate in Italia per aver fatto una protesta nonviolenta, perché hanno paura di non mangiare più, è qualcosa che suscita molta indignazione.
M: La repressione è necessaria per un conflitto nonviolento. La maggior parte dei conflitti nonviolenti hanno successo nel sud del mondo e in sistemi autoritari. Il sistema neoliberale e il sistema liberista sono quelli in cui sono avvenute meno rivoluzioni nonviolente, perché sono intelligenti, perché sanno che la repressione diretta non è una bella idea. Nel suo libro sulla storia delle rivoluzioni, Erica Chenoweth ha dimostrato statisticamente nel 2021 che la maggior parte delle rivoluzioni arriva laddove c’è autoritarismo percepito, non dove c’è sperequazione economica. Percepito non vuol dire assoluto, vuol dire che è troppo per te. E questo autoritarismo per gestire la crisi climatica ed ecologica arriverà. Stiamo già parlando di poliziotti dell’acqua laddove scarseggerà. La gente impazzirà di fronte a questo. La repressione e l’autoritarismo percepito saranno insiti nella gestione delle conseguenze climatiche, quindi porteranno le persone ad agire in un conflitto sociale. La gente agirà non perché convinta da noi, ma perché sarà convinta dalla situazione e dalla fallacia di un sistema che sta diventando sempre più autoritario per ignoranza e incapacità nel gestire questa cosa.
Movimento è un termine che si può usare parlando di voi?
B: Tante volte si tende a definire il movimento come qualcosa di identitario, però in realtà sono gruppi di persone che fanno cose. A me interessa più questo; il nome, la questione identitaria non interessa.
M: Mi piace dire organizzazione, che è provocatorio rispetto alla cultura della disorganizzazione che vige nei movimenti sociali; dire che siamo un’organizzazione radicale o che siamo un progetto. Ultima generazione è un progetto per mobilitare persone, per mobilitare un movimento. Prima c’è una visione, poi un progetto, una sequenza di passi per raggiungere la visione, poi c’è l’organizzazione, che evolve, per creare tutte le fasi del progetto. Infine c’è il movimento, che è risultato finale: le persone che vengono mobilitate per fare cose. Il progetto è fatto di diverse fasi. Ce ne saranno altre in cui le nostre richieste andranno sempre più verso temi sociali e poi ci sarà il momento in cui dovrà diventare un movimento rivoluzionario per la democrazia partecipativa.
Quando avanzerete nuove richieste?
B: Per ora rimaniamo su queste.
Potreste allargare i temi o vi terrete stretti sull’energia?
M: Non c’è limite, ma in ogni caso dobbiamo andare a far calare le emissioni o portare il tema del mutamento climatico fortemente sui media. O fare una richiesta sociale, che però vada a cambiare le carte in tavola rispetto al cambiamento climatico. Credo che non saranno gli ambientalisti e non sarà il movimento climatico a risolvere la crisi climatica, a livello di protesta politica. Questo è il paradosso.
Vi chiamate Ultima generazione perché è l’ultima che può fare qualcosa, però dite che non sarete voi a risolvere. Quindi sarà chi viene dopo, o saranno altri?
M: Abbiamo pochissimi anni per ridurre drasticamente le emissioni. Se riusciamo a cambiare l’opinione pubblica sui metodi di lotta, cambiamo qualcosa. Poi magari sarà qualcun altro a raggiungere il risultato: la parte dei sindacati che non ne possono più, parte dei contadini, parte di gente che è nel tessuto economico sociale, che ha una rappresentanza, non come noi che purtroppo non abbiamo un potere contrattuale. Noi portiamo il metodo, il sindacato ha sempre fatto quello che facciamo noi prima di giungere a un pervertimento totale.
Non stiamo portando niente di nuovo, stiamo risvegliando alla tradizione di come cambia la società.
Saperenetwork è...
- Alice Scialoja, giornalista, lavora presso l'ufficio stampa di Legambiente e collabora con La Stampa e con La Nuova Ecologia. Esperta di temi ambientali, si occupa di questioni sociali, in particolare di accoglienza. Ha pubblicato il libro A Lampedusa (Infinito edizioni, 2010) con Fabio Sanfilippo, e i testi Neither roof nor law e Lampedusa Chapter two nel libro Mare Morto di Detier Huber ( Kerber Verlag, 2011). È laureata in Lettere, vive a Roma.
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