Dentro i sogni di Fellini
Il museo che Rimini, sua città natale, ha dedicato al grande regista è in realtà un non-museo. Un’esperienza estetica completa, creata a immagine e somiglianza dell’autore. E che ha il solo torto di poter disorientare il visitatore. Ammesso che di torto si tratti…
La nebbia, il silenzio, il rumore del mare. Il mare di Rimini d’inverno. È da questa magia, ovattata e malinconica, anche quando ammantata di allegria circense e un po’ cialtrona, che Federico Fellini ricostruiva in pellicola tutta il suo vissuto. È quel mare in bianco e nero – così lontano dallo stereotipo del divertimento a tutti i costi della riviera romagnola anni ’80 e ‘90 – che il visitatore incontra nella prima sala di grandi dimensioni, al piano terra di Castel Sismondo, dimora quattrocentesca che ospita la sede principale del Museo Fellini di Rimini. È difficile entrare in questo spazio – e attraversare la saletta con la sfilza delle sceneggiature che pendono dall’alto all’interno di una torre, la stanza con il carro di Zampanò e poi quella dedicata all’antenato del drone per le riprese dall’alto, i dolly – senza rimanere felicemente disorientati.
Serve qualche istante per capire che stiamo calpestando le assi di legno di un pontile (di una nave? di un porto?), circondato da un velo di raso che si rigonfia irregolarmente sotto lo stimolo di un non percepibile, ma visibile, vento di terra. Dal basso.
E dall’alto, nella penombra cinematograficamente illuminata della grande sala proto-rinascimentale, si aprono schermi, da cui affiorano immagini, voci e suoni. La spiaggia che vediamo nei fotogrammi è quella dello Sceicco bianco, dei Vitelloni, della Dolce vita, di Amarcord. Che nella finzione cinematografica sono sempre i lidi romagnoli, frequentati fin dall’infanzia da di Federico. Mentre nella realtà del set era quella, molto somigliante a dire il vero, della Fregene a due passi dalla Capitale.
Cronaca di un museo sfuggente
Non solo il Museo Fellini non è un museo nel senso classico. Non è cioè un luogo dove il visitatore entra e contempla degli oggetti, in un rapporto a due di spettatore-fruitore. Non lo è neppure perché il contenuto del museo è sfuggente: è Federico uomo o Federico artista? È il libro dei sogni di cui parlava con il suo psicanalista junghiano Ernst Bernhardt a Roma? È la materializzazione delle scene felliniane tramutate in sogni cinematografici – come la riproduzione in forma di enorme bambola della “gigantessa” carnale Anita Ekberg, sdraiata al suolo con ai suoi piedi uno schermo formato da corde ondeggianti, modellate sulla forma dell’acqua della fontana di Trevi e su cui viene proiettata in loop la scena più iconica del più proverbiale dei suoi film («Marcello, come here» ne La dolce vita). O ancora i confessionali aprendo le cui grate uno schermo proietta racconti di attori, autori, tecnici che della macchina cinematografica felliniana hanno fatto parte, ciascuno a suo modo.
Perdendosi con Federico
Non lo è infine perché è uno spazio plurale e diffuso, che abbraccia la città. Oltre a tre piani di Castel Sismondo e allo specchio d’acqua antistante che viene avvolto di tanto in tanto da una nebbia artificiale, a ricordare il passaggio del transatlantico Rex in Amarcord, e comprende anche il palazzo sul retro del Cinema Fulgor, dove il giovane regista si è formato all’esperienza cinematografica (bellissima suggestiva la “stanza del mago”, una delle tante figure ricorrenti del cinema felliniano, al secondo piano). Sulla piazza Malatesta, non poteva mancare una riproduzione simbolica, con una grande panca ovale e sgabelli circensi, che evocano il girotondo finale di Otto e mezzo. In tutto il percorso, gioco di richiami è costante, come anche la sinestesia: suoni, voci, immagini in movimento e fotogrammi felliniani in cui il visitatore-spettatore è immerso. Il museo Fellini riesce davvero ad essere fatto della stessa materia dei sogni. Che per Fellini erano anche la realtà delle sue stesse bugie di regista. È vero che in questa immersione, così poco didascalica e non di immediata comprensione soprattutto per chi non conosce la biografia e le opere del regista, il visitatore rischia non solo il disorientamento ma forse perfino lo smarrimento. Ma di sicuro è un bellissimo perdersi.
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Saperenetwork è...
- Giornalista, laureato in Filosofia, ha cominciato sbagliando tutto, dato che per un quotidiano oggi estinto recensiva libri mai più corti di 400 pagine. L’impatto con il reportage arriva quando rimane bloccato dalla polizia sotto la Borsa di Londra con i dimostranti anti-capitalisti. Tre anni nella capitale inglese, raccontandola per Il Fatto Quotidiano, poi a Bruxelles, dove ha seguito le elezioni europee del 2014 e del 2019. Nel 2024 rischia di fare lo stesso, stavolta per Il manifesto.
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