Frida. Wearing the Inside Out
In questi giorni ci ritroviamo a vivere l’assurdo, ciò che qualche mese fa avrebbe reso sorda la nostra immaginazione. La pittrice messicana con l’assurdo imparò presto a convivere e lo rese parte della sua estetica, vestendosi alla rovescia tra sensuali colori sgargianti e intime frattaglie
Cosa significa avere sete di vita? Cosa succede a un corpo bloccato tra le mura domestiche quando sente il richiamo della natura fuori dalle finestre e il bisogno di consumare giornate cariche di incontri e stimoli diventa un imperativo che cozza con i limiti fisici?
Stiamo vivendo questa quarantena condividendo i divieti con i nostri amici, sapendo che in realtà quel concerto non ce lo siamo perso solo noi, ma tutta la band, così pure quel compleanno o quella festa di laurea. Sì, stiamo soffrendo relegati in casa, ma stiamo condividendo questa sofferenza, sapendo che prima o poi finirà.
Spero di non tornare mai più. Viva la vida!
La sete di vita di Frida Kahlo aveva un altro sapore. Frequentava la casa di Tina Modotti, l’instancabile fotografa italiana, militante comunista e animatrice di serate tra artisti e intellettuali, dove tra un bicchiere di vino e un po’ di musica si discuteva di politica e arte. Era il mondo che tanto amava il grande Diego Rivera, un mondo che non si fermava mai.
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Frida invece, nonostante la sua carica di vitalità, era costretta a fermarsi spesso. Aveva solo 18 anni quando un incidente la portò a una vita di continui interventi medici e chirurgici e mesi di infermità domestica e ospedaliera. È nell’ultima opera affiancata all’ultima riga del suo diario che possiamo leggere la discrepanza tra la vitalità del suo spirito e la costrizione del suo corpo. Il desiderio di assaporare la vita e l’impossibilità di farlo. L’opera si chiama appunto Viva la Vida! E questa frase oggi è indissolubilmente legata all’immagine della piccola artista messicana. Sono delle angurie rosse e succose e potrebbe sembrare una semplice natura morta. Così diversa dai suoi autoritratti ai quali siamo più abituati.
Ma è l’ultima opera e porta in sé la capacità di sintesi di tutte le metafore, la forza del gusto della vita è racchiusa in ogni fetta. Sulla fetta centrale è scritto Viva la Vida: un messaggio, l’ultimo, accompagnato dalla firma dell’artista. Insieme all’ultima tela, nella Casa Azul troviamo anche il diario di Frida con l’ultima frase:
«Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più». Una riga lapidaria che racconta l’insopportabile dolore racchiuso dietro al Viva la Vida.
Un binomio, la tela e il diario, che raccoglie le due facce della medaglia Frida: quella di una vita pubblica di festa, così chiaramente presente nei suoi vestiti tradizionali dai colori sgargianti, e quella di una vita privata di sofferenza mostrata nella continua profanazione ed esposizione dei suoi organi interni.
Ritrovarsi in un riflesso
Eppure la creatività, come molti artisti stanno sperimentando in questi giorni, languisce senza contaminazione con l’esterno. La vena artistica chiede in continuo di sporcarsi con l’altro, di entrare in contatto e trasformarsi. Quando tutto questo non è possibile, non resta altro che un soliloquio che si perde all’infinito nello specchio cercando, nella stratificazione del proprio essere, la risposta ai più ancestrali interrogativi sul senso dell’esistenza e della sofferenza.
Lo sa bene Frida che di specchi intorno alla solitudine dell’esperienza del dolore ne ha avuti molti. Il primo glielo montarono i genitori sul baldacchino del letto quando a 19 anni si ritrovò chiusa in un busto ingessato per ben nove mesi.
Furono loro a cogliere il suo bisogno di ritrovarsi e a sostenere la ricerca dell’autoritratto come strumento di auto conoscenza e scoperta. Così negli anni, ogni volta che sarà costretta a scomparire alla vita esterna, Frida cercherà conferma della propria esistenza negli specchi e nell’autoritratto.
«Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio» dirà arrivando a ritrarsi nei modi più diversi.
Mentre sta nascendo, allattata dalla sua nutrice indigena, sposa di Diego, vestita e circondata di animali e monili, ma anche nuda nel letto di un ospedale, in compagnia di antenati biologici e intellettuali, ma anche e soprattutto in rapporto con sé stessa, come nella famosa opera Le due Frida del 1939.
Con il cuore in mano
La solitudine in Frida è così potente da riuscire a trasformare il monologo interiore in dialogo con il proprio corpo e il proprio dolore. Tra il fuori e il dentro si stabilisce una relazione che corrisponde a un wearing the inside out, un rovesciare l’interno portandolo alla luce.
Nella solitudine inizialmente Frida cerca se stessa nello specchio. Ma quando il dolore si fa forte e ciò che vive oltre l’epidermide inizia a urlare, allora la bidimensionalità della superficie riflettente non basta più. L’artista inizia a scavare a mani nude nella profondità del proprio dolore e da questo tira fuori frattaglie: cuore, cervello, scheletro, vene, sangue, organi che prima di essere simboli sono sostanza.
L’artista messicana, attraverso l’ascolto del proprio corpo, è in grado di discendere verso la radice del vivere, raccogliendo ciò che di più intimo, e meno poetico, ci compone.
E se abbiamo scelto di delegare simbolicamente al cuore il mondo dei sentimenti e dell’amore, Frida ce lo mostra nel suo aspetto più grossolano e materialistico con i suoi atri e i suoi ventricoli. È una piccola casa anch’esso, con intime stanze e passaggi, retto da una meccanica raffinata. La Kahlo ci porta in una sorta di viaggio frattale, dove dall’insostenibile grandezza dei sentimenti scendiamo verso i meccanismi fisici.
¿Que haria yo sin el absurdo?
Nel suo viaggio attraverso il dolore Frida Kahlo inevitabilmente si trova a scontrasi con l’inspiegabile. Perché la sofferenza e il male sono elementi che la nostra mente non può spiegare. La religione e la filosofia hanno costruito tesi e antitesi per avvicinarsi alla comprensione della sofferenza, Frida sceglie di estetizzarla e raccontarla come un dato di fatto rendendo la sua arte cara al gusto dei surrealisti tanto che lo stesso André Breton la definì «una surrealista creatasi con le sue mani».
Eppure Frida non amava questa definizione, ciò che dipingeva era la sua realtà, l’assurdo che la circondava.
«Che sarei io senza l’assurdo?», si chiedeva.
Perché il terreno dell’assurdo è l’unico che può sorreggere gli interrogativi per i quali non c’è risposta. Ab surdus, è ciò per il quale la nostra ragione resta sorda, non trova risposte. Assurdo è dunque il dolore e la condizione umana nella sua sofferenza. Nell’intimità con l’assurdo, Frida trova la chiave per convivere con il proprio dolore.
Saperenetwork è...
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Dafne Crocella è antropologa e curatrice di mostre d’arte contemporanea. Dal 2010 è rappresentante italiana del Movimento Internazionale di Slow Art con cui ha guidato percorsi di mindfulness in musei e gallerie, carceri e scuole collaborando in diversi progetti. Insegnante di yoga kundalini ha incentrato il suo lavoro sulle relazioni tra creatività e fisicità, arte e yoga.
Da sempre attiva su tematiche ambientali e diritti umani, convinta che il rispetto del proprio essere e del Pianeta passi anche dalla conoscenza, ha sviluppato il progetto di Critica d’Arte Popolare, come stimolo e strumento per una riflessione attiva e consapevole tra essere umano, contemporaneità e territorio. È ideatrice e curatrice di ArtPlatform.it, piattaforma d’incontro tra creativi randagi.