I nuovi fossili del genere “Homo” scuoteranno il nostro albero genealogico?

Sulla rivista The Innovation è comparso uno studio che sembrano ridisegnare l'evoluzione umana

I nuovi fossili del genere “Homo” scuoteranno il nostro albero genealogico?

I recenti studi riguardano due fossili di “Homo”, il cranio di Harbin, in Cina, e i resti dell’Homo di Nesher Ramla, in Israele. Potrebbero realmente riscrivere la nostra storia evolutiva? La scienza prova a rispondere

Lo sguardo dei paleoantropologi di tutto il mondo si è spostato verso oriente: su Science  è stato pubblicato il lavoro di un team internazionale di scienziati sui resti fossili del sito del Paleolitico medio di Nesher Ramla, in Israele, mentre, sulla rivista The Innovation è comparso lo studio dei ricercatori della Hebei GEO University, in Cina, sul cranio di Harbin. Entrambi i fossili risalgono al Pleistocene Medio e sembrano poter ridisegnare l’albero genealogico di “Homo”. È realmente così?

 

Genere Homo: un Pleistocene abbastanza affollato

Quella di “Homo” è una storia di grande diversità, di un’evoluzione che non procede come una linea retta, come molti immaginano, ma è un cespuglio di specie che si sono trovate a condividere lo spazio, il tempo e a volte anche i geni. Negli ultimi decenni i ricercatori, grazie alle loro scoperte, hanno arricchito la lista delle specie e sottospecie appartenenti al genere Homo che hanno vissuto nel Pleistocene medio e superiore. Abbiamo l’indonesiano Homo florensis, il siberiano Denisova, l’Homo naledi dal Sudafrica e il filippino Homo luzonensis, tutte specie che hanno convissuto con i Neanderthal e  l’Homo sapiens. Ci sono, però, alcuni fossili le cui caratteristiche non corrispondono perfettamente a una di queste specie già individuate, ad esempio proprio quelli di cui si parla nelle pubblicazioni su Science e The Innovation. Sono nuovi rami o ci sono altre spiegazioni?

 

L’evoluzione umana: la nascita di Homo sapiens e i suoi incontri con gli altri umani” di Telmo Pievani

 

La strana avventura del cranio di Harbin

Quella del cranio di Harbin, a cui sono dedicati tre articoli su The Innovation, è una storia che potremmo definire avventurosa. Nel 1933 un uomo cinese che lavorava alla costruzione di un ponte nella città di Harbin, nella Cina nord-orientale, trovò il fossile e intuì – probabilmente grazie alla precedente scoperta del cranio dell’uomo di Pechino, avvenuta nel 1929 – l’importanza dell’oggetto. Invece che consegnarlo ai suoi superiori giapponesi, lo nascose in un pozzo. Dopo numerose vicissitudini personali e storiche – l’invasione giapponese, la guerra civile, il movimento comunista e la rivoluzione culturale – l’uomo, in punto di morte, ha rivelato l’esistenza del fossile e il suo nascondiglio alla famiglia che, successivamente, ha donato il reperto alla Geoscience Museum of Hebei GEO University. I ricercatori dell’istituto hanno studiato questo cranio quasi completo: secondo la datazione, risalirebbe a più di 140.000 anni fa e l’analisi morfologica rivelerebbe un insieme di caratteristiche che lo renderebbero più vicino all’Homo sapiens che ai Neanderthal. I ricercatori credono che le caratteristiche uniche del reperto siano abbastanza per classificarlo come nuova specie: Homo longi, detto anche Dragon Man dal luogo di ritrovamento, il Long Jiang (Dragon River).

 

 

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L’Homo di Nesher Ramla

Diverso è il caso dello studio dell’Università di Tel Aviv, in collaborazione con un team internazionale in cui figurano anche gli italiani del Laboratorio di Paleoantropologia e bioarcheologia del Dipartimento di Biologia ambientale dell’Università di Roma Sapienza. In Israele, nel sito di Nesher Ramla, sono stati rinvenuti ed esaminati dei reperti fossili risalenti a un periodo compreso tra 140.000 e 120.000 anni fa. Al contrario del cranio di Harbin, qui abbiamo un contesto archeologico analizzato nelle sue differenti sfaccettature: dall’industria litica alla fauna, dalla stratigrafia al paleoambiente. In particolare, i resti protagonisti della ricerca pubblicata su Science – le ossa parietali del cranio, la mandibola e un molare – sono stati analizzati morfologicamente e confrontati con altri fossili: apparterrebbero a un gruppo di Homo che presenta una combinazione unica tra le caratteristiche dei Neanderthal e tratti più arcaici. Gli scienziati coinvolti non si sbilanciano sull’esistenza di un nuovo “taxa”, cioè un nuovo gruppo tassonomico, ma evidenziano quanto la scoperta sia rilevante per altri motivi. Convenzionalmente si pensava che nel Pleistocene Medio fosse Homo sapiens a vivere nel Levante, del resto le prime prove della presenza di Neanderthal in quell’area ci porterebbero in un periodo che ha inizio 70.000 anni fa. Alla luce di questo, ci si aspettava di trovare resti di Homo sapiens, e invece non è stato così. «Con i nuovi fossili israeliani, sappiamo che la storia potrebbe essere stata anche più complessa e non solo confinata all’Europa – commenta in un comunicato stampa Fabio Di Vincenzo, curatore della sezione di antropologia del Museo di Storia naturale di Firenze, anche lui tra gli autori del nuovo studio – La geografia dell’area Mediterranea, con la sua eterogeneità ambientale durante il Pleistocene, ha necessariamente svolto un ruolo chiave nel plasmare le caratteristiche dei Neanderthal da un capo all’altro del continente, includendo anche le regioni balcaniche e le limitrofe aree asiatiche». I Neanderthaliani, quindi, non erano diffusi solo in Europa – come si supponeva – ma anche nel Vicino Oriente.

Un albero genealogico da ridisegnare?

L’albero genealogico di Homo sarà rinfoltito con nuovi rami dopo queste nuove scoperte? Sembra di no, almeno per ora. Se per l’Homo di Nesher Ramla, sono gli stessi autori dello studio a non suggerire questa ipotesi, per quanto riguarda il cranio di Harbin ci sono altre questioni da considerare: un unico fossile potrebbe non bastare alla classificazione di una nuova specie e le circostanze del ritrovamento renderebbero la questione ancora più controversa, non essendoci informazioni precise del contesto archeologico e ambientale in cui il reperto è stato conservato prima del 1933. Alcuni studiosi, inoltre, sospettano che il cranio possa appartenere a specie già conosciute: il paleoantropologo Philip Rightmire, della Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts, ha affermato in un’intervista su Nature che il fossile di Harbin, insieme ad altri ritrovati in Cina negli anni passati e risalenti al Pleistocene Medio, potrebbe probabilmente rappresentare cosa accadde ad alcuni dei primi Neanderthal che marciarono dall’Europa, attraversando il Medio Oriente, la Cina e la Siberia per poi diventare Denisoviani. Probabilmente, avendo a disposizione solo dati antropometrici e senza la possibilità di esaminare il DNA dei fossili, converrebbe parlare del genere Homo invece che di nuove specie o sottospecie. Ciò non diminuirebbe il fascino di queste scoperte: paleontologicamente noi uomini siamo un palinsesto di popolazioni, discendenze e specie, il nostro genoma racconta una storia di molteplici espansioni, contrazioni e estinzioni su scala locale. Siamo animali che migrano e si mescolano da quando hanno iniziato ad abitare su questo Pianeta. Una lezione che non dovremmo dimenticare.

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Alessia Colaianni
Alessia Colaianni
Laureata in Scienza e Tecnologie per la Diagnostica e Conservazione dei Beni Culturali, dottore di ricerca in Geomorfologia e Dinamica Ambientale, è infine approdata sulle rive della comunicazione. Giornalista pubblicista dal 2014, ha raccontato storie di scienza, natura e arte per testate locali e nazionali. Ha collaborato come curatrice dei contenuti del sito della rivista di divulgazione scientifica Sapere e ha fatto parte del team della comunicazione del Festival della Divulgazione di Potenza. Ama gli animali, il disegno naturalistico e le serie tv.

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