Il clima, l’arte, la zuppa di pomodoro e noi
Nelle scorse settimane gli attivisti climatici hanno preso di mira quadri importanti nei musei. Nessun pericolo per le opere, iper protette. Una protesta importante, che irrompe nello sguardo. Ma, secondo alcuni, il rischio è di creare paradossalmente ulteriore torpore e negazione
La ventisettesima conferenza delle parti Onu sul clima, appena conclusa, verrà presumibilmente ricordata per essere stata la prima su suolo africano, nell’Egitto blindato di Al-Sisi, e la prima dove, dopo molte insistenze è stato introdotto ufficialmente (ma si vedrà presto, poi, quanto concretamente) il fondo per il Loss and Damage. Se nella militarizzata Sharm El-Sheikh della Cop, proteste e azioni dimostrative sono state vietate, in Europa i giorni che hanno preceduto l’evento hanno visto il susseguirsi di una serie di azioni dimostrative degli attivisti climatici.
Non solo i Fridays For Future, che, in Italia e nel resto del mondo, sono tornati in piazza. Il mese scorso è stato un ottobre rosso come la zuppa di pomodoro versata sui Girasoli di Van Gogh (protetti da un apposito pannello di vetro) che ha inaugurato la catena di azioni dimostrative degli attivisti di Just Stop Oil (in Italia di Ultima Generazione). Mani incollate, zuppe di pomodoro e affini, traffico bloccato. Ira di automobilisti incolonnati, sdegno di molti benpensanti (ammesso che si chiamino ancora così), accuse da parte di politici e opinionisti.
È una protesta, quella dei giovani, talvolta giovanissimi attivisti che si è fatta e si sta facendo sempre più visibile.
Come se dicessero, se nemmeno i Fridays For Future riescono a cambiare qualcosa, a cambiare concretamente, allora ci frapponiamo tra voi e quello che guardate, entriamo prepotentemente nel vostro campo visivo frapponendoci tra voi (mondo che decide, istituzioni, media, “adulti”) e la manifestazione della bellezza che amate contemplare nella quiete di un museo. Profanare quella quiete, i suoi accessi, la sua placida, civile ritualità, vuol dire: non permettetevi più di voltare lo sguardo. E d’altra parte, è assurdo e ingiusto incolpare gli attivisti e le attiviste di, come è stato detto e scritto, deturpare, rovinare, imbrattare, dato che tutte le opere “prese di mira” sono iper protette da teche, vetri infrangibili, barriere invalicabili. A sporcarsi di quel liquido rosso, appiccicoso e frastornante è solo la superficie, solo il nostro sguardo che d’improvviso è costretto a guardare quello che sta succedendo. «Non c’è alcun intento né alcuna possibilità di rovinare un quadro inestimabile. Solo la volontà lucida di sfruttarlo per attirare l’attenzione su un tema epocale», hanno commentato con la consueta lucidità Maura Gancitano e Andrea Colamedici della scuola di filosofia Tlon.
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«Quel che sfugge agli indignati è che un numero crescente di ragazze e ragazzi di oggi vivono quella che è chiamata “Solastalgia”, una forma di disagio emotivo o esistenziale causato dalla crisi ecologica». Una definizione coniata dal filosofo Glenn Albrecht, che significa “la nostalgia di casa che hai quando sei ancora a casa”, mentre il tuo ambiente domestico cambia in modi angoscianti. Sono dunque atti dimostrativi destinati ad aumentare, così come aumenta, per fortuna, la consapevolezza delle giovani generazioni nei confronti della crisi climatica, che porta a fenomeni di ansia ormai riconosciuti e studiati dagli specialisti.
D’altronde, davvero una zuppa versata su un vetro di protezione di un museo è più grave che inquinare, sovvenzionando i fossili?
Controversa, spigolosa ma fortunatamente molto lontana dall’ipocrisia superficiale dei benpensanti è la riflessione apparsa sulle pagine del Guardian, firmata da una storica dell’arte e, almeno da come si descrive, attivista per il clima, Lucy Whelan. Attenzione all’autocompiacimento climatico, ammonisce Whelan. Mentre uno spruzzo dopo l’altro colpisce le teche, chiunque guardi le foto, i filmati al telegiornale, in rete e suoi social, è attraversato istintivamente dallo stesso processo mentale: «(…) Un respiro stupito, seguito dalla consapevolezza che in realtà va tutto bene. L’opera d’arte è al sicuro dietro un vetro, ermeticamente sigillato da esperti conservatori. Ciò che sembra pericoloso è un mero spettacolo, non una realtà».
Guarda il video di Glenn Albrecht al Ted
Come in una sorta di analisi neuroscientifica di immagini cinematografiche, Whelan sostiene che molto ha anche a che fare con il contesto storico, ossia dall’unione tra paura e compiacimento che ha caratterizzato e sta caratterizzando questi ultimi anni, segnati dalla pandemia e da eventi catastrofici. «Siamo tutti consapevoli e preoccupati, anche secondo i più recenti sondaggi. Ma i nostri governi continuano a far finta che non ci sia alcuna fretta». Un atteggiamento che, soprattutto nel Regno Unito, è stato lampante durante il governo di Boris Johnson.
«Se questi ultimi anni hanno dimostrato qualcosa, è proprio che la maggior parte delle persone ormai si spaventa pensando ad un futuro fatto di alluvioni, tempeste e temperature incredibili, eppure, al tempo stesso decidono che hanno bisogno di comprare una macchina più grande».
Un effetto paradosso, che rischia di creare ulteriore torpore, se non addirittura (come si è visto in Inghilterra con il Covid) una reazione di arrogante e ottusa negazione. Una scissione dell’io che abbiamo visto anche alla stessa Cop27, proprio con la questione Loss and Damage, e che d’altra parte coinvolge anche il dibattito sulla guerra in Ucraina, che non a caso ha acuto delle ripercussioni non indifferenti sulla corsa all’approvvigionamento di fonti fossili.
«Finché si continuerà a gettare zuppa contro il vetro protettivo attorno a grandi opere d’arte, si continuerà a dimostrare ancora e ancora che “il sistema” ci salverà. Ma alla fine non lo farà. Un giorno, il sigillo attorno al vetro protettivo non funzionerà, e allora finalmente sarà dimostrato che i disastri possono e possono accadere, e non solo nelle immagini»
Il punto di Whelan è controverso e ricorda un po’ troppo le polemiche (vecchie almeno di 30 anni) sull’abuso di scene di violenza in tv, nei film e nei videogiochi. Per questo si può non essere d’accordo con lei. Siamo davvero (quasi) tutti così presi da noi stessi e abituati a sentirci a posto aldilà di un comodo vetro di protezione? Il succo di pomodoro, la zuppa, la colla, dopo l’iniziale fastidio si tolgono via in pochi minuti, e per Whelan i nostri cervelli sono portati, dalla storia, dal contesto, a processare qualcosa di simile. Un “andrà tutto bene” autocompiaciuto, comodo, “positivo”, in linea con la retorica corrente. È davvero così? Forse no, o non del tutto. Ma considerando la dissociazione che caratterizza la maggior parte dei nostri ego, poco inclini ad affrontare la realtà aldilà dei selfie, atrofizzati dall’autocompiacimento e dalla comodità di un parlarsi addosso rassicurante (“positivo” come si usa dire, contro il negativo, i gufi, i professoroni, i menagrami), le sue parole sono uno spunto, ambiguo e rischioso, su cui riflettere.
Saperenetwork è...
- Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.
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