In principio fu Basaglia. Viaggio alla (ri)scoperta della follia
Lo psichiatra, che ha legato il suo nome alla Legge che impose la chiusura dei manicomi, rappresenta ancora oggi un punto di riferimento nel dibattito sulla salute mentale. Una dimensione che ispira l’arte, il cinema, la letteratura. E che rappresenta anche un’importante sfida educativa
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«Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante – seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughiere. Questo tipo di istituzioni io lo chiamo “istituzioni totali”».
Queste parole sono tratte dal libro “Asylums” di Erving Goffman. Comincia da qui il nostro viaggio nell’interpretazione della follia, nei diversi volti che assume, da questo volume del 1961 a firma del celebre sociologo americano che fu accolto con un particolare entusiasmo da Franco Basaglia: lo psichiatra veneziano il cui nome è legato alla Legge 180 che proprio oggi compie 42 anni. Basaglia rivedeva infatti in quelle pagine le stesse pratiche di disumanizzazione attuate regolarmente nei manicomi italiani di cui proprio lui impose la chiusura. Un’analisi lucida sulla spoliazione dei ruoli che lo spinse a pubblicare, sette anni dopo, nel pieno della contestazione studentesca, “L’istituzione negata” (Baldini Castoldi Dalai, 2010): il libro, anch’esso una pietra miliare negli studi sula follia, che descrive le dinamiche di potere, oppressione e alienazione presenti, all’epoca, nelle strutture di trattamento. Dinamiche che si ripresentano nella famiglia, nella scuola, nella fabbrica, nelle università, nel carcere.
Liberi dall’ideologia della scienza
Nel capitolo “Le istituzioni della violenza”, in particolare, Franco Basaglia spiega che per difendersi dalla follia, la società ha dovuto nascondere il suo volto violento e che per farlo si era servita dei «tecnici della violenza”: psichiatri, psicoterapeuti, assistenti sociali. A loro volta difesi dall’ideologia della scienza e dal suo linguaggio soltanto apparentemente edificante. Infatti, negli ospedali psichiatrici o manicomi (luoghi di cura della pazzia) la reclusione coatta, l’elettroshock, lo shock insulinico e cardiazolico, cinghie, legacci, camicie di forza erano strumenti di tortura che venivano giustificati in nome dell’educazione, della colpa e della malattia.
La società con quei luoghi di reclusione aveva trovato, insomma, una strategia per ammorbidire i conflitti con le istituzioni, un modo per garantire l’ordine, il disciplinamento sociale. A queste storture della psichiatria tradizionale e all’ideologia della scienza, Basaglia risponde con la tesi di Jean-Paul Sartre espressa nel 1948 in Che cos’è la letteratura? ( Il Saggiatore, 2006): «L’ideologia è libertà mentre si fa e oppressione quando si è costituita». Era giunto il momento di dire apertamente che le torture non potevano più nascondersi dietro le ragioni della scienza. Di fatto non c’era nessuna funzione riparatrice dietro le tecniche terapeutiche orientative dello psichiatra. Scrive Basaglia:
«In realtà il loro compito è quello di adattare gli individui ad accettare la loro condizione di oggetti di violenza, dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa, al di là delle diverse modalità di adattamento che potranno adottare».
La malattia viene considerata come qualcosa di irreversibile e la scienza della psichiatria, nascondendo di essere soltanto un potere travestito da sapere, avrà la sola funzione di controllare i corpi. Renderli docili. Di tenere i malati il più lontano possibile dalla società. Come aveva già evidenziato nel 1961 il filosofo francese Michel Foucault, con “La storia della follia in epoca classica” ( Rizzoli, 2011), il folle a partire dal Seicento non era semplicemente un malato, ma una persona considerata pericolosa per la società. Un immorale che non rispetta le norme della comunità e per questo li si interna insieme ai poveri, agli omosessuali, ai mendicanti e a tutti coloro che scandalizzano la morale borghese con i loro comportamenti e pensieri.
Verso la vera cura
Basaglia aveva capito che la terapia nelle istituzioni totali non era la vera cura. Da un punto di vista prettamente scientifico, infatti, il malato mentale coincide con una alterazione biologica, una devianza rispetto a una norma, come già era accaduto in passato con la definizione di diversità biologica che stabiliva l’inferiorità morale e sociale del diverso. Come dirà a Trieste lo psichiatra Franco Rotelli nel 1983, in occasione della commemorazione pubblica di Franco Basaglia:
«La cura, come “preoccuparsi di”, come tensione verso l’altro, come incontro e rischio tra due soggetti scompare e si fa terapia e reificazione e ospedale e corpo oggetto dell’intervento e ideologia fondata sul sequestro delle contraddizioni del soggetto, perdita del corpo proprio e della soggettività del medico come di quella del paziente».
La normalizzazione compiuta dalla scienza, che si basa sull’etichettamento, trasforma la sofferenza psichica in malattia, e in questo modo legittima l’azione esclusivamente di controllo delle istituzioni psichiatriche.
Basaglia avvertiva la necessità di lottare contro l’oggettivazione del malato, liberandolo dall’isolamento e dalla repressione dell’istituzione: luogo principe in cui si concreta l’estraneazione-alienazione come reificazione dell’altro e del sé.
L’uomo oltre il disagio psichico
E ciò era possibile soltanto attraverso il recupero delle relazioni fra medico e paziente. Instaurando un rapporto di reciprocità, di scambio, di dialettica, di incontro, il malato poteva manifestare la sua personalità nella sua globalità e recuperare il potere sul suo corpo. Come aveva appreso dal pensiero fenomenologico esistenziale, infatti, l’uomo non è un’entità astratta definibile secondo un sistema di categorie chiuse. Il malato è piuttosto soggetto/oggetto di una sofferenza sociale. In particolare la sua condizione socio-economica incide sulla sua condizione di malato. È nella struttura socio-economica che si trova la violenza originaria che lo spinge fuori dalla produzione, dalla vita associata, fino alle mura dell’ospedale. Andando anche oltre la fenomenologia, Franco Basaglia aveva portato alla luce la complessità della vita e il valore dell’esistenza del malato. La sua rivoluzione consisteva soprattutto nel riconoscimento dell’altro come soggetto degno di rispetto, titolare di diritti. Si legge nell “Istituzioni della violenza”:
«Una comunità terapeutica si potrà definire tale soltanto se riconosce le dinamiche di violenza e di esclusione presenti nell’istituto, così come nell’intera società. Creando i presupposti per una graduale presa di coscienza di questa violenza e di questa esclusione, in modo che il malato, l’infermiere e il medico – quali elementi costitutivi della comunità ospedaliera e insieme della società globale – abbiano la possibilità di fronteggiarle, dialettizzarle e combatterle, riconoscendole strettamente legate a una struttura sociale particolare e non come un dato di fatto ineliminabile».
Ha senso parlare di indagine scientifica sulla malattia all’interno dell’istituzione psichiatrica soltanto se eliminiamo tutte le sovrastrutture che ci rimandano dalla violenza all’istituto, alla violenza della famiglia e alla violenza della società e di tutte le sue istituzioni.
Guarda l’intervista a Franco Basaglia sull’antipsichiatria
Saperenetwork è...
- Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.
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