La comunità, rimedio allo stress da pandemia. Colloquio con lo psicologo Giancarlo Rossi
Il coronavirus, oltre a ansia e stress, ha creato disgregazione comunitaria. A risentirne soprattutto le fasce socialmente più deboli, come anziani e persone con disagi psichici. Lo psicologo Giancarlo Rossi mette in guardia sui rischi di un aumento dell’individualismo
La pandemia ha fatto saltare una parte delle reti sociali, e iniziamo a vederne le prime conseguenze. Ce ne parla Giancarlo Rossi, 43 anni, psicologo e psicoterapeuta individuale e di gruppo, che vive a Torino, città nella quale lavora sia privatamente sia presso istituzioni. Da anni si occupa di psicoterapia, di politiche attive del lavoro, di riabilitazione psichiatrica, di empowerment comunitario. Nel 2019, insieme ad alcuni colleghi, ha scritto e pubblicato Cibo e giallo. Intrecci di cibo e psiche nelle vicende di alcuni personaggi letterari.
Quale impatto ha prodotto il Covid e, soprattutto, la prolungata quarantena sulle dinamiche individuali?
Stiamo scoprendo che dal punto di vista individuale sono emerse sintomatologie in persone che finora non avevano mai manifestato difficoltà psicologiche. Lo vedo sia nel mio lavoro, ma anche dai dati di accesso alle strutture pubbliche. Da più parti viene infatti evidenziato un aumento delle richieste di aiuto per sintomi fondamentalmente di tipo ansioso e depressivo. Un discorso a parte va invece fatto per tutte quelle persone che durante la pandemia si sono ammalate e hanno necessitato di cure invasive, oppure per chi ha subito un lutto, che non è stato possibile affrontare in modo collettivo, ed in questo caso siamo di fronte a dei veri propri traumi psichici che quindi andranno trattati in modo specifico.
Durante la quarantena questa tendenza non si era già in qualche modo manifestata?
In quel periodo non in modo evidente, vuoi perché la telemedicina non era ancora così diffusa e praticata, vuoi perché come in tutte le situazioni di stress c’è un periodo in cui “si tiene” per poi manifestare la sofferenza ed il disagio vissuti in quel periodo nel momento in cui quel pericolo, di natura fisica, sembra almeno in parte essere passato. È infatti noto che di fronte ad eventi molto stressanti il nostro organismo produce una quantità maggiore di cortisolo che ci dona maggiore energia per affrontare il periodo; quando però questo periodo si allunga troppo il nostro organismo non riesce più a produrlo e tutto il sistema mente-corpo ne risente. Per contro, durante il lockdown si sono esacerbati tutti quei sintomi legati al contagio, alla pulizia, alla sanificazione. Chi soffre di disturbi di tipo ossessivo-compulsivo, evidentemente, può aver patito più di altri. In ogni caso è importante chiedere aiuto se si manifesta una sintomatologia, in quanto dopo questo periodo abbiamo tutti dei buoni motivi per stare male, e affrontare il malessere in tempo significa farlo durare di meno ed evitare che si cronicizzi.
A livello comunitario cosa è cambiato?
Le comunità sono persone che condividono un’appartenenza. Ognuno di noi fa infatti riferimento, è allo stesso tempo in debito e in credito con più gruppi, più o meno formali. La quarantena ha creato un forte impoverimento, se non una disgregazione, di molte di queste comunità. Il venir meno del senso di appartenenza, del senso del dovere verso le proprie comunità di riferimento ha accentuato una tendenza all’individualismo, di suo già sostenuta dal neoliberismo che governa il nostro mondo. È altresì vero che durante la quarantena abbiamo anche vissuto esperienze di solidarietà incredibili, soprattutto da parte dei più giovani, che però sembrano un po’ svanite nel nulla con la fine del confinamento. Una possibile spiegazione è che fosse un modo inconscio di far fronte all’angoscia di morte che ha pervaso tutti noi di fronte alla pandemia e alle informazioni su di essa.
Durante la quarantena sembrava che la lacuna di socialità fosse in qualche modo colmata attraverso le comunicazioni da remoto. Non è stato così invece?
Le comunicazioni da remoto sono state uno strumento utile per chi aveva già la possibilità e la capacità di utilizzarle, mentre tutta una fascia di popolazione ne è rimasta esclusa. Penso agli anziani, alle persone più fragili dal punto di vista psichico e a quelle più deboli dal punto di vista sociale ed economico. Ancora, occorre rilevare che, proprio per queste persone sono venute meno tutte le occasioni di socialità in qualche modo organizzata e pensata per loro: è ad esempio il caso dei centri diurni per persone disabili, dei centri di aggregazione per gli anziani, dei circoli, degli oratori…
Secondo lei, quando vedremo le conseguenze dell’isolamento forzato che si è creato nei mesi scorsi?
Immagino si vedrà a medio-lungo termine. Chi sta accedendo ora alle strutture pubbliche non per forza rientra in queste tipologie di persone, che per le caratteristiche evidenziate sono anche quelle che tradizionalmente hanno più difficoltà ad accedere alle cure.
Ci sarà anche un impatto sulle dinamiche familiari?
C’è già stato. Sicuramente durante il lockdown, dove equilibri consolidati e funzionanti da anni sono improvvisamente “saltati” per la convivenza forzata, che ha costretto da un lato a confrontarsi con parti di sé e dell’altro non conosciute, dall’altro ha portato a una riorganizzazione dei tempi familiari, per conciliare il lavoro da casa, la scuola dei figli e il tempo della ricreazione. È come se fossimo stati tutti reclusi in una sorta di “istituzione totale”, come descritta da Foucault e altri, riferendosi al carcere e alle strutture manicomiali, la cui caratteristica principale è quella di contenere in uno stesso luogo tutti gli aspetti della vita, impedendo l’apertura verso l’esterno.
Chi è riuscito ad uscirne bene?
Questa riorganizzazione non è stata per forza peggiorativa delle condizioni di vita. Almeno per chi partiva già una situazione di benessere e agio. Il poter dedicare un tempo maggiore agli affetti e ai propri interessi può aver fatto bene. Certamente, dove invece esistevano a monte criticità di qualunque tipo, la chiusura ha accentuato le conflittualità. Basta pensare a chi, costretto a vivere in spazi ridotti, ha dovuto condividerli forzatamente con altri, oppure a chi viveva già situazioni di elevata conflittualità familiare, se non addirittura di violenza, o ancora chi ha visto aggravare situazioni economiche già precarie. L’impatto di queste situazioni probabilmente lo vedremo nei prossimi mesi. Sicuramente nel quadro di incertezza economica e di probabile impoverimento collettivo, si presume che ci sarà, per i motivi più diversi, un incremento del malessere anche psichico di ampie fasce della popolazione.
Si può fare qualcosa se non prevenire, almeno per gestire, queste situazioni?
Bisogna fare una prima distinzione. Ci sarà un aggravamento dei quadri psicopatologici che richiederanno una vera e propria cura psicologica ed eventualmente psichiatrica, che non è detto che i servizi pubblici siano in grado di gestire con le risorse attuali. Certo, rimane il settore privato, che però ha un limite nei costi, che lo rendono poco accessibile per un’ampia fascia di popolazione che presenterà questi problemi. Secondariamente, è probabile che moltissime persone si troveranno a vivere periodi di sofferenza e che potranno evitare di manifestare sintomi eclatanti qualora quelle comunità che si sono sgretolate si ricostituiranno o, in alternativa, se ne formeranno altre.
Perché può fare la differenza avere una comunità di riferimento?
L’uomo è un animale sociale e parte del benessere è dato dalla qualità delle relazioni che abbiamo. Inoltre il senso di appartenenza ad un gruppo, a una comunità, o anche a una professione, è quello che ci permette di sentirci efficaci, utili, in poche parole di sentire che la nostra vita ha un senso. Senza questa appartenenza il rischio è quello di trovarsi di fronte ad un vuoto interiore che tenteremmo di colmare in modo inadeguato.
Esperienze precedenti ci hanno insegnato qualcosa al riguardo?
Per evitare di incappare negli stessi errori fatti durante le precedenti crisi economiche, cioè di “colpevolizzare” solamente la persona rispetto alla propria condizione, sarebbe a mio avviso necessario impiegare risorse per favorire la formazione di gruppi, di reti, formali e informali, e penso ad una vasta gamma di gruppi, da quelli terapeutici in senso vero e proprio all’associazionismo, dai gruppi di sostegno o mutuo-aiuto agli spazi aggregativi . Il rischio grosso è infatti rispondere ad un problema complesso con soluzioni semplici, cioè individuali ed esclusivamente medicalizzate, e questo non farebbe altro che creare dei nuovi malati e dei nuovi esclusi.
Saperenetwork è...
- Giornalista e cacciatrice di storie, ho fatto delle mie passioni il mio mestiere. Scrivo da sempre, fin da quando, appena diciassettenne, un mattino telefonai alla redazione de Il Monferrato e chiesi di parlare con l'allora direttore Marco Giorcelli per propormi nelle vesti di apprendista reporter. Lì è nata una scintilla che mi ha accompagnato durante l'università, mentre frequentavo la facoltà di Giurisprudenza, e negli anni successivi, fino a quando ho deciso di farne un lavoro a tempo pieno. La curiosità è la mia bussola ed oggi punta sui nuovi processi di comunicazione. Responsabile dell'ufficio stampa di una prestigiosa orchestra torinese, l'OFT, scrivo come freelance per alcune testate, tra cui La Stampa.
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