Palestina, fra la Covid-19 e Israele. A colloquio con l’antropologa Honaida Ghanim

Honaida Ghanim, sociologa e antropologa palestinese, tra i dirigenti di Madar, il Forum Palestinese di Studi su Israele

Palestina, fra la Covid-19 e Israele. A colloquio con l’antropologa Honaida Ghanim

A fronte di un numero esiguo di contagiati, i Territori Palestinesi devono fare i conti con la disoccupazione e la povertà in cui sono sprofondate migliaia di persone dall’inizio del lockdown. Mentre il sistema sanitario, in assenza di aiuti, rischia il collasso

Un disastro sociale, ben più grave e profondo del danno sanitario. È il bilancio, ad oggi, della pandemia nei Territori palestinesi occupati: Cisgiordania e Gaza. Da una parte 520 casi di persone trovate positive al Sars-Cov-2 su una popolazione di 5 milioni di persone (17 a Gaza e 503 in Cisgiordania, di cui 167 a Gerusalemme Est, dati OMS aggiornati al 3 maggio), dunque pochi. Dall’altra quasi 100mila famiglie cadute in povertà nelle ultime settimane per la perdita delle fonti di reddito dovuta alle restrizioni anti-Covid secondo il Ministero dello Sviluppo Sociale. Nel frattempo, il coronavirus è riuscito in un miracolo, mettere d’accordo in Israele i due rivali Benny Gantz e Benjamin Netanyahu, che si alterneranno alla guida di un esecutivo di emergenza nazionale, dopo tre round di elezioni e 18 mesi di stallo politico, ma non è bastato a compierne un altro: allentare la morsa di Israele sui Palestinesi.

 

Misure contro la Covi-19 in Palestina
In Palestina si sta fronteggiando l’espansione della pandemia tramite misure di prevenzione

 

Ne abbiamo parlato con Honaida Ghanim, sociologa e antropologa palestinese e tra i dirigenti di MADAR, il Forum Palestinese di Studi su Israele, organizzazione di ricerca indipendente con sede a Ramallah in Palestina.

Lei vive a Ramallah ed è una cittadina arabo-israeliana. Qual è l’impatto dell’epidemia da Covid 19 nei territori occupati, sia dal punto di vista dei contagi e delle vittime che delle misure di contenimento?
L’Autorità Palestinese, nel momento in cui è stata informata di un possibile focolaio nel suo territorio, è intervenuta rapidamente, adottando misure che comprendevano il distanziamento sociale, il lavoro da casa, la chiusura di scuole e università. I ristoranti sono potuti rimanere aperti solo per il takeaway, sono state previste protezioni per i lavoratori dei supermercati, il disinfettante per le mani e altri prodotti sanitari sono stati resi disponibili in luoghi pubblici come le banche e le farmacie. Questi provvedimenti d’emergenza hanno avuto un grande impatto nel rallentare la diffusione del virus e nel mantenerla finora molto bassa. Il problema principale resta quello dei lavoratori palestinesi che si spostano quotidianamente tra Israele e i Territori, senza tutele e controlli a causa della politica israeliana nei loro confronti. Giorni fa, per esempio, un cittadino palestinese che lavora in Israele che manifestava sintomi di Covid-19 è stato abbandonato senza aiuto dagli israeliani a un checkpoint.

 

 

 

 

Stando ai dati, nei territori la pandemia è meno diffusa che in Israele (sono 27 i morti per milione di abitanti in Israele al 3 maggio e 0,8 in Palestina, dati di eccellenza rispetto all’Europa).
Sì è vero, per il momento è così, e ciò è dovuto alla rapidità della risposta dell’Autorità Palestinese che ha anticipato le misure israeliane e al rispetto del lockdown da parte della popolazione. Il primo caso segnalato di Coronavirus riguardava 17 persone in un hotel di Betlemme: la città è stata immediatamente isolata, i casi curati e confinati in casa, e questo ha consentito di bloccare il contagio.

 

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Nei territori esiste un sistema sanitario pubblico accessibile a tutti? Se sì, è adeguato alle attuali necessità?
Questo è il problema principale. L’isolamento e tutte le misure prese sono in sé adeguate ma il servizio sanitario pubblico non è all’altezza. Ci sono solo 235 ventilatori polmonari in Cisgiordania. Pochi, per ora la situazione è sotto controllo grazie alle rigorose misure precauzionali.

In che misura l’epidemia sta rallentando le attività economiche nei territori?
Ha un impatto molto forte, soprattutto perché si aggiunge a una grave crisi economica vissuta dalla Palestina negli ultimi due anni a causa del congelamento da parte di Israele delle entrate fiscali, necessarie all’Autorità Palestinese per il pagamento dei dipendenti pubblici (Ndr: gli accordi di Oslo e Parigi stabiliscono un’unione doganale tra Palestina e Israele che, di fatto, riscuote gran parte delle tasse palestinesi ma non versa il gettito all’Autorità Palestinese, il cui deficit fiscale secondo dati Onu potrebbe raggiungere i 2 miliardi di dollari entro la fine del 2020). Già prima della pandemia la situazione era molto difficile e molti dipendenti pubblici percepivano solo mezzo stipendio. Ora, con la pandemia, la crisi è generalizzata ed estesa alle piccole e medie imprese private. Vi è poi una categoria ancor più vulnerabile: quello dei lavoratori palestinesi in Israele, di cui la maggior parte lavora in condizioni disagiate, pagata a giornata, senza alcuna forma di previdenza.

 

 

Israele sta fornendo qualche assistenza all’Autorità Palestinese in questa crisi?
No, nessuna. Anzi continua a imporre il blocco a Gaza, dove sono arrivati kit per tamponi sufficienti per testare poco più di mille persone, in un’area dove il sistema sanitario è al collasso. Gaza non è in alcun modo preparata per affrontare questa pandemia, con solo 87 ventilatori e strutture ospedaliere limitate a fronte di un milione e otto di abitanti.

L’epidemia accentua il peso delle differenze sociali?
È così, ed è così anche in Israele. Sui palestinesi in Israele, che rappresentano il 20% della popolazione, sono stati effettuati pochissimi tamponi, e in generale il governo israeliano nell’affrontare la pandemia si è largamente disinteressato della popolazione palestinese. Solo dopo ripetuti appelli dei membri arabi della Knesset, il parlamento israeliano, e dure critiche interne, le autorità israeliane hanno innalzato il livello delle misure precauzionali all’interno delle comunità palestinesi.

 

 

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Alice Scialoja
Alice Scialoja
Alice Scialoja, giornalista, lavora presso l'ufficio stampa di Legambiente e collabora con La Stampa e con La Nuova Ecologia. Esperta di temi ambientali, si occupa di questioni sociali, in particolare di accoglienza. Ha pubblicato il libro A Lampedusa (Infinito edizioni, 2010) con Fabio Sanfilippo, e i testi Neither roof nor law e Lampedusa Chapter two nel libro Mare Morto di Detier Huber ( Kerber Verlag, 2011). È laureata in Lettere, vive a Roma.

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