“Io! Io!” esclama a un certo punto il bambino verso i due anni e mezzo-tre, cominciando a parlare di sé in prima persona. Come quando il pulcino buca l’uovo, ci avverte che “qualcosa” dentro di lui si è risvegliato, diventando in parte cosciente. Siccome fare il genitore è tutta una strada in salita, il bambino si manifesta in questo primo gesto opponendosi, proprio come succederà in adolescenza, ma su un piano di pura volontà: non più Fede o Lucia vuole, ma io non voglio scendere dall’altalena, restituire il giocattolo, uscire dal bagnetto, finire la pappa…
Questa fase oppositiva, come peraltro tutte le tappe di sviluppo, è così importante che se un bambino la evita potrebbero più avanti derivarne alcuni scompensi. Disperati – in inglese li chiamano “terrible twos” – ci consoliamo solo sapendo che dopo averci osservato e imitato da quando sono venuti al mondo, è la loro individualità che sta facendo i primi passi verso l’autodeterminazione. Ci saranno tante stazioni di servizio a cui fare rifornimento di “io” fino al suo pieno sbocciare a 21 anni, che non a caso era la maggiore età prima della precocizzazione e della fretta.
Ricomincio da io
La paroletta “io”, così breve e così pregnante, che nessuno può pronunciare al posto nostro, è come la bandiera di Amundsen al Polo Sud e di Armstrong sulla Luna: la conquista assolutamente eroica di un territorio ostico ed ostile, la loro casa corporea. Sono i bambini affetti da gravi impedimenti a metter in luce tutta la fatica, la tenacia e la complessità delle tre tappe evolutive della prima infanzia. Le diamo quasi per scontate e invece dovremmo gridare al miracolo per ogni bambino che a un anno si mette in piedi, che a due parla e che infine dice “io” perché intorno ai tre anni, quando fanno capolino il pensiero e capacità rappresentativa, sa che io non sono te, pur essendo io grazie a te. È l’io che risponde ai tanti “tu” in cui si sono rispecchiati, di cui hanno imparato le voci, ricopiato le movenze, riconosciuto gli odori perché è in cosa e in chi lo circonda che il bambino respira, si identifica e si immedesima. Parola di Martin Buber:
Divento io nel tu; diventando io dico tu. Ogni vita reale è incontro. In principio c’è la relazione (“Io e Tu”, 1923)
Da dentro e da fuori, l’individualità si incarna con un processo fisiologico, emotivo, motorio, sensoriale e intellettivo meraviglioso. Sono fondamentali il contatto e il ritmo, l’equilibrio, il movimento e un valore che abbiamo perso da tempo: la lentezza. A guardarli crescere nei loro primi anni pare di vederle, le forze della vita, così simili al modellare plastico dello scultore. Mentre imita, mentre gioca, il bambino impara: si colma di immagini che diventano tanti “tu” interiori, altro da sé grazie a cui l’io cresce, il baule dove andare a cercare quando si comincerà a scrivere e a leggere.
L’immagine e l’immaginazione sono vive, si trasformano nel tempo: ogni volta che penso a un cigno avrò una visione diversa perché io sono diverso. Se invece il bambino lo rimpinziamo delle visioni di altri (Disney, Pixar, Assassin’s Creed, Pokemon, Minecraft…), le sue figurine saranno sempre uguali, fisse e rigide. Prova del nove: com’è vestita Biancaneve? Che fattezze ha Achille? Alzi la mano chi non ha visto l’abito giallo e blu con le maniche a sbuffo del caro Walt o la scultorea bellezza dell’amato Brad Pitt…
Corpi spariti
Allora, se l’io è relazione, mentre gli esperti lavorano, arrivano notizie non rassicuranti sulla scuola del post-coronavirus ad aggravare i quattro mesi dell’emergenza. No, non andrà tutto bene se dopo aver sigillato i parchi, costretto i più piccoli a casa e imprigionato tutti gli altri allo sguardo spettrale della didattica a distanza, ora abbiamo paura dell’altro e del suo respiro, camminiamo mascherati anche all’aperto e ci stiamo interiormente preparando a cancellare dalla vita dei bambini e dei ragazzi ogni esperienza dei sensi, rassegnandoci alla perdita del sorriso, illudendoci di far coincidere l’educare col trasferimento d’informazioni-istruzioni.
E dove sono le mani della maestra che ti mette seduto dritto venti volte al giorno, e le carezze del mattino, e il naso da soffiare? E i compagni da abbracciare?
Forse ha ragione Giorgio Agamben quando invita studenti e professori a rifiutarsi di iscriversi e di insegnare. Forse tutti i genitori dovrebbero ribadire il loro no, vincendo la paura e l’ansia, unendosi ai tanti e tanti appelli, alle manifestazioni e alle invocazioni che arrivano da più parti. Non facciamo che la Covid-19 sia il bus dove saliamo per abdicare all’infanzia. Millenni per arrivare a vedere finalmente il bambino nella sua unicità – non un adulto in miniatura o un selvaggio da sgrezzare e rendere atto alla ri-produzione – ma un essere fragile e potente, un dono degli dei da accompagnare in questa vita. E pochi decenni per ripiombarlo nei ceppi delle nostre inadeguatezze di adulti.
È che i bambini, come le donne, fanno paura. I bambini sono la vita e il futuro che abbiamo cominciato a temere e a tremare. Ci rassicura miniaturizzarli, ci fa tragicamente comodo controllarli e patologizzarli, al punto da trasformare il bambino vivace che fino a pochi decenni fa barattava l’irrequietezza con la creatività in un acronimo malato di iperattività da mettere sotto Ritalin.
Neil Postman ci aveva messo in guardia sin dal 1982, in un libro assolutamente profetico, “La scomparsa dell’infanzia. Ecologia dell’età della vita” (Armando Editore). La stampa, dice, aveva creato l’infanzia e la televisione l’ha cancellata. Seduti sul divano, col telecomando in mano, annulliamo la distanza tra le generazioni e le età della vita si contraggono, si riducono a tre: a un estremo la primissima infanzia, all’altro la senilità, in mezzo il lungo periodo del bambino adulto.
Saperenetwork è...
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Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.
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