Virtuale e reale, il paesaggio seduce il Torino Film Festival 2020
Alla 38esima edizione del Festival, tre cortometraggi puntano i riflettori sul paesaggio. Un’occasione per riflettere sul rapporto con la Natura e con l’ambiente, tra virtuale e reale
Il paesaggio è stato al centro della sezione dedicata ai documentari dell’edizione 2020 del Torino Film Festival, conclusasi pochi giorni fa. Le proiezioni di quest’anno sono state ovviamente spostate online, a causa della pandemia. Il virtuale quindi supporta il reale, esattamente com’è accaduto nei tre cortometraggi della sezione TFFdoc/Paesaggio .
In continuo dialogo con il cinema
Il paesaggio è un po’ la pelle del nostro Pianeta. Attraverso le sue rughe e le sue cicatrici ripercorriamo la sua storia e quella dei suoi abitanti. È proprio per questo che è stato dapprima oggetto di contemplazione estetica e religiosa per poi divenire, nel Novecento, il talismano in grado di evocare la narrazione delle guerre mondiali, dei disastri ecologici e delle grandi migrazioni. Il documentario è sicuramente lo strumento con cui il cinema ha stretto un legame più profondo con il paesaggio e il Festival ha reso omaggio a questa connessione con i 3 cortometraggi della sezione TffDoc/Paesaggio, che raccontano un confronto mai scontato tra reale e virtuale.
Tra virtuale e reale, nostalgia e salvezza
I corti Backyard di Khaled Abdulwahed (2018), My Own Landscape di Antoine Chapon (2020) e Operation Jane Walk di Leonhard Müllner e Robin Klengel (2018), scavano in questo rapporto. Un buio cortile di Berlino, sorpreso da una pioggia scrosciante, nasconde il lavoro di ricostruzione di un paesaggio, un campo di fichi d’india a sud-ovest di Damasco, ritratto in una fotografia del 1998.
Il regista Abdulwahed, in Backyard, mostra la volontà di riprodurre con un virtuale “artigianale”, fatto di matite, squadre, negativi tagliati ma anche di computer grafica e stampa 3D, non solo ciò che lo spazio offriva ma anche ciò che il tempo ha cancellato e come ciò è accaduto.
Il frastuono degli elicotteri, dei carri armati, le grida dei soldati, prendono il posto del canto degli uccelli. Era il 2012 e quella distesa di verde e di spine vicina all’abitazione dell’autore, veniva distrutta dalla guerra.
Guarda la presentazione di Backyard di Khaled Abdulwahed
Natura virtuale e video game per guarire dalla guerra
Una natura nostalgica che diviene salvifica in My Own Landscape. Diretto da Antoine Chapon, il film racconta la storia di Cyrille Poitevineau-Millin, un ex game designer militare: prima di andare in guerra ha realizzato scenari digitali per preparare i soldati a fronteggiare shock culturali o a lenire i traumi. La natura virtuale, costruita nei minimi dettagli – in particolare un albero di ulivo di cui cura ogni caratteristica, dal fruscio delle foglie alla loro texture – diventa per il protagonista un rifugio dalle sofferenze dovute al disturbo post traumatico da stress. Cyrille conosce bene gli effetti dei video game sulla mente umana, sa che trascorrendo molte ore nella sua oasi virtuale si finirà per sognare scene del video gioco che prenderanno il posto degli incubi della guerra.
Guarda la presentazione di My Own Landscape di Antoine Chapon
Lo scontro tra cultura e violenza
L’ultimo cortometraggio è Operation Jane Walk di Leonhard Müllner e Robin Klengel. Il paesaggio in cui ci ritroviamo è quello urbano, la New York – per la precisione Midtown Manhattan – post-apocalittica e dettagliatissima del videogioco Tom Clancy’s: The Division. Ci si aspetterebbe che i giocatori, armati di tutto punto nei loro avatar, inizino una normale sessione di “sparatutto”. E invece, accompagnati dagli autori, si comincia uno straniante tour della città, trasformandosi in flâneur che vagabondano, cercando di non essere costretti a combattere, tra l’Ufficio delle Nazioni Unite, il MetLife Building (precedentemente PanAm Building), la Trump Tower e persino i sotterranei che, come sottolinea la guida, sono facilmente visitabili.
Guarda il cortometraggio di Operation Jane Walk
Le architetture digitali di Le Corbusier o Gropius vengono commentate, così come è spiegata la battaglia ideologica tra Jane Jacobs, antropologa e attivista statunitense, e Robert Moses, funzionario pubblico che nella prima metà del ‘900 lavorò alla costruzione dell’area metropolitana di New York.
Una battaglia che verte sull’iper-semplificazione della pianificazione urbana del Novecento, incapace di tener conto della complessità dell’umanità nelle differenti comunità presenti.
Una visita resa ancora più surreale e distopica dalla colonna sonora, tra le note di You’re driving me crazy, eseguita da Django Reinhardt, e di Swamp Jam dei The Brothers Comatose. La pellicola diviene così testimonianza di come sia possibile trasmettere cultura in un ambiente “ostile”, grazie anche a un tocco di humor.
Saperenetwork è...
- Laureata in Scienza e Tecnologie per la Diagnostica e Conservazione dei Beni Culturali, dottore di ricerca in Geomorfologia e Dinamica Ambientale, è infine approdata sulle rive della comunicazione. Giornalista pubblicista dal 2014, ha raccontato storie di scienza, natura e arte per testate locali e nazionali. Ha collaborato come curatrice dei contenuti del sito della rivista di divulgazione scientifica Sapere e ha fatto parte del team della comunicazione del Festival della Divulgazione di Potenza. Ama gli animali, il disegno naturalistico e le serie tv.
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