Distanza d’insicurezza. Come cambia la prossemica nell’epoca del coronavirus

Distanza d’insicurezza. Come cambia la prossemica nell’epoca del coronavirus

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato alcune misure di cautela per arginare la diffusione del coronavirus. Fra queste vi è la riduzione dei rapporti interpersonali. Ma quali potrebbero essere gli effetti sullo stile di vita degli italiani?  Lo abbiamo chiesto al professore Michele Bracco, filosofo ed esperto di prossemica.

Mantenersi a un metro di distanza l’uno dall’altro, evitare abbracci, strette di mano e luoghi affollati. E anche il classico bacio sulla guancia è rinviato a data da destinarsi. Sono alcune delle misure suggerite dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, durante il discorso del 4 marzo, per arginare il contagio da corona virus. Misure che mettono a dura prova le abitudini degli italiani, in particolare quelle che chiamano in causa la prossemica, ovvero la distanza interpersonale che ci fa sentire individui ma allo stesso tempo parte di una comunità e di un contesto.

Riusciremo a rivedere questo aspetto del nostro linguaggio nazionale notoriamente caratterizzato dall’espansività e dal contatto fra i corpi? Lo abbiamo chiesto a Michele Bracco, professore di filosofia presso il liceo Classico e  Linguistico “C. Sylos” di Bitonto, e studioso del pensiero contemporaneo. Ha curato la voce “prossemica” per l’enciclopedia Treccani, ed è autore del libro “Sulla distanza. L’esperienza della vicinanza e della lontananza nelle relazioni umane” ( Stilo Editrice, 2016).

 

Michele Bracco
Michele Bracco, professore, filosofo ed esperto di prossemica

 

Professore, gli scienziati, ma anche il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, hanno invitato gli italiani a evitare il contatto fisico per prevenire il contagio, a rinunciare all’abbraccio o ad una stretta di mano. Che sforzo si sta chiedendo viste le abitudini connaturate nelle relazioni interpersonali nel nostro Paese?

Lo sforzo che questa decisione comporta per ognuno di noi deriva dal fatto che esistono essenzialmente due modi di fare esperienza della vicinanza e della lontananza tra i corpi.

Ognuno di noi già sa che una cosa è la distanza geometrica misurabile in linea retta tra due corpi, un’altra è la vicinanza o la lontananza dal punto di vista esistenziale e affettivo. Si può comprendere meglio quello che dico osservando il dipinto di Degas intitolato L’assenzio: sono raffigurati un uomo e una donna seduti fianco a fianco, a una distanza geometrica che la prossemica definirebbe “intima” ma che non sembra tale, a giudicare dagli sguardi dei due personaggi persi nei loro mondi così indifferenti l’uno all’altro. Anche se dover rispettare delle distanze non significa allontanarsi in senso affettivo, la cosa può generare una certa angoscia, quella forse che alcuni italiani mitigano con l’ironia e la creatività, inventando tormentoni mediatici di tutti i tipi che hanno assunto, anche loro, una diffusione “virale”. Non assomigliano alle preghiere e alle penitenze che gli uomini rivolgevano un tempo a Dio in occasione di una pestilenza, però ci mostrano quanto il riso costituisca una forma incredibile di resistenza, almeno laddove non finisca per ottundere la nostra capacità di pensare in modo critico e di comprendere adeguatamente la realtà.

 

Assenzio di Degas
Il dipinto di Edgar Degas L’Assenzio. Olio su tela, databile al 1875-1876 e conservato al Museo d’Orsay di Parigi.

 Da questo punto di vista esistono delle differenze geografiche e sociali in Italia?

Secondo la prossemica, ideata dall’antropologo americano Edward Twitchell Hall per studiare i diversi modi in cui uomini e donne appartenenti a etnie diverse percepiscono lo spazio e stabiliscono tra loro rapporti di vicinanza o di lontananza, gli esseri umani vivono la distanza in un modo fortemente condizionato dalla loro cultura, e cioè dal sapere, dalla lingua, dai valori, dalle usanze e, aggiungerei, persino dall’ignoranza e dai pregiudizi. L’ignoranza e il pregiudizio, infatti, condizionano tanto quanto la cultura o la scienza il modo in cui percepiamo il nostro corpo e quello degli altri. E questo perché l’immagine che noi ci facciamo di un corpo è piuttosto un’immagine mentale che nasce dalle nostre conoscenze, corrette o infondate che siano, dai nostri sentimenti, dalle nostre paure. In poche parole, quello che vediamo di un corpo non è solo quello che percepiamo con i nostri occhi, ma è soprattutto quello che sappiamo (e non sappiamo) di esso. Certo, i modi di vivere lo spazio e la distanza possono cambiare a seconda delle zone geografiche o dei contesti sociali in cui si vive, ma non credo si possano individuare delle caratteristiche così specifiche da consentirne una classificazione esaustiva. Sono più propenso a credere che il rapporto con i luoghi, le cose e le persone risenta di una sensibilità, di una intonazione affettiva, di un modo di essere-nel-mondo che resta unico per ognuno di noi e direi, forse, insondabile e indicibile nella sua misteriosa complessità.

 

Guarda l’annuncio del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte

 Ma pensa che dopo questa “cura della distanza” potrebbero cambiare in forma permanente le abitudini nei rapporti fisici fra le persone?

Le racconto un episodio che ho vissuto qualche giorno fa e che mi ha turbato non poco. Mi trovavo all’esterno della mia banca che, per motivi precauzionali, faceva entrare solo tre clienti alla volta. Mi sono messo in coda sul marciapiede restando vicino agli altri per non perdere il turno. Improvvisamente, una persona, che era almeno un paio di metri più in là sulla mia destra, ha starnutito, e io, per la prima volta in vita mia, ho percepito quello starnuto come una possibile minaccia, al punto che mi sono spostato da lì. Confesso che mi sono vergognato per aver considerato quella persona come qualcuno da cui proteggermi senza una ragione evidente. In seguito, riflettendo in maniera “fenomenologica”, ho interpretato la cosa in questi termini: la paura esagerata di essere contagiato ha condizionato, anche solo per un attimo, il modo in cui ho percepito la distanza dagli altri corpi, una distanza irriducibile alla pura e semplice misura in metri o centimetri. Per quanto infatti ci trovassimo all’aperto, quell’aperto non era per me abbastanza aperto. Quell’esterno era a suo modo un ambiente dalle pareti invisibili nel quale, nonostante fossimo effettivamente per strada, mi sono sentito racchiuso. Ma non solo. Una volta entrato nella banca assieme agli altri, non solo il locale mi è sembrato meno spazioso del solito, ma anche il tempo è come se avesse cominciato a scorrere più lentamente, con il risultato che ogni minuto di attesa sembrava interminabile mentre cresceva il desiderio di uscirne al più presto.

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Nel saggio “Sulla distanza. L’esperienza della vicinanza e della lontananza nelle relazioni umane” lei sostiene che la distanza è spreco. Eppure abbiamo bisogno dell’altro. Esiste quindi una giusta distanza?

Sembra paradossale, e forse lo è: possiamo avvicinarci a qualcuno, possiamo incontrarlo, possiamo sfiorarlo o colpirlo, possiamo intrattenere una conversazione con lui o ignorarlo solo perché, in fondo, c’è una distanza profonda e irriducibile che ci unisce ma anche ci separa; una distanza che ci mette in contatto proprio perché ci distanzia e ci differenzia l’uno dall’altro. La distanza è infatti ciò che dischiude la possibilità di una vicinanza e di una lontananza; una ferita nel cuore dell’Essere, una lacerazione che apre l’Uno al Due e lo rende ospitale. Non c’è ospitalità senza lacerazione, non c’è l’altro senza la lacerazione di una individualità che, altrimenti, sarebbe condannata alla solitudine desolante di ciò che è pieno di sé. Per tale ragione questa distanza è già una giusta distanza. Il bisogno dell’altro non potrà mai essere regolato dalle conoscenze, dalle misure, dalle leggi, dalle economie, perché sono queste che si fondano su quello e non il contrario. Il bisogno dell’altro è l’inconfessabile segreto di ognuno di noi, il segreto più pericoloso che giace rimosso anche nel cuore del malvagio come uno scrigno prezioso nel fondo tenebroso dell’oceano.

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Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.

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