Willy, storia di un ragazzo. Intervista a Christian Raimo
A tre anni dalla morte del ventenne, lo scrittore ne ripercorre la vicenda, con un libro e un podcast. Rimettendo al centro Willy e i ragazzi di provincia, stanchi di venire giudicati senza essere compresi
Nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 a Colleferro, in provincia di Roma, viene ucciso un ragazzo durante un pestaggio. Si chiama Willy Monteiro Duarte, ha 21 anni, è di Paliano – una cittadina distante pochi chilometri dal luogo dove ha trovato la morte – e fa il cuoco. Gli assassini vengono catturati subito e rapidamente condannati. Il ragazzo, di origine capoverdiana, con il suo volto sorridente e spensierato, diventa presto un’icona. Lui, vittima dell’ingiustizia, i suoi massacratori esecutori di una violenza feroce e senza senso. Caso chiuso?
Non per Christian Raimo, insegnante, giornalista e scrittore che in Willy, una storia di ragazzi (Rizzoli) rivisita questa storia alla luce delle troppe false piste – non giudiziarie, ma narrative – che hanno preso il via da quell’omicidio.
Il gusto morboso dei media nel dipingere una periferia sempre e comunque derelitta e criminale, il moralismo dell’opinione pubblica che guarda i ventenni dall’alto in basso, bollandoli come perditempo, se non addirittura viziosi e criminali, vengono ribaltati attraverso un lavoro collettivo condotto per diversi mesi. Con Raimo c’è anche il giornalista Alessandro Coltré, conoscitore di quella realtà locale. E le pagine del libro sono affiancate anche da un podcast, narrato da una voce nota e popolare (almeno a Roma) come quella di Claudio Morici e strutturata sulla potente drammaturgia sonora di Teho Teardo. Grazie al lavoro collettivo di Raimo e degli altri che per ragioni diverse hanno incrociato la storia di Willy, si riesce ad andare oltre gli stereotipi, e si rimette al centro la vittima nella sua umanità di ventenne. Gli autori lo fanno grazie all’ascolto della comunità del territorio dove Willy viveva i suoi anni. Un ragazzo tra ragazzi, appunto, prima ancora che una vittima di una violenza atroce e insensata.
Una prima cosa interessante che emerge dal vostro racconto dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte è che i media hanno seguito e raccontato soprattutto gli assassini, mentre Willy è quasi scomparso. Che idea ti sei fatto?
Non raccontare le vittime ma gli assassini è molto più semplice. Porta più traffico sul web. Il direttore di un quotidiano ci ha detto: se metto la foto dei fratelli Bianchi con la faccia truce, faccio 100.000 visualizzazioni, se metto la foto di Willy ne faccio mille. Se devo raccontare una notizia in un’informazione basata sul traffico, lo faccio in base a quanto viene più letto e ascoltato. E lo è quando conferma quello che pensiamo. In presenza di tante fake news legate a Willy – una lettera attribuita alla mamma, il sogno di diventare calciatore della Roma, la pista del regolamento di conti per droga – i giornali online fanno traffico dando la notizia falsa nel momento stesso in cui la smentiscono. Così però vanno a inquinare l’ambiente informativo.
I media hanno confuso, più che aiutato a capire: sono stati fatti errori proprio nel racconto della dinamica dei fatti. Ad esempio sulla durata del pestaggio.
A molti è rimasto in testa che la violenza è durata 15 o 20 minuti: all’inizio si pensava così. Invece tutto è successo in soli 20 secondi. Questo spiega anche perché nessuno è riuscito a fermarli, nonostante la caserma dei carabinieri fosse a due passi e ci fosse così tanta gente attorno a lui.
Nel libro trova spazio un’osservazione sulla causa precisa della morte del ragazzo.
Tre anni dopo non ne siamo totalmente sicuri. In un pestaggio si muore per dissanguamento o lesione degli organi interni, per emorragia. Ma sulla base dell’autopsia, l’emorragia non sembra essere così tanto estesa da determinare la morte. La perizia medica menziona la commotio cordis, una sorta di tilt o fibrillazione del cuore molto accelerata che viene stoppata in maniera violenta da un colpo (capita ad esempio agli sportivi). C’è invece chi sostiene che ad ucciderlo sia stato un colpo alla carotide, che blocca l’afflusso di sangue al cervello. Consiglio di ascoltare l’arringa difensiva di Valerio Spigarelli, avvocato del maggiore dei fratelli Bianchi, Gabriele, al processo d’appello del 15 giugno 2023. In oltre quattro ore, l’avvocato smonta in modo capillare tutto il caso. Il suo punto è su chi dei fratelli Bianchi abbia dato il colpo letale e la sua arringa fa riflettere sulla responsabilità individuale, su cui di nuovo si è fatta confusione, spesso non distinguendo neppure l’uno dall’altro.
I due assassini principali, i fratelli Bianchi appunto, che definite “rider della violenza”…
Nel senso che quello di andare a picchiare in giro “a chiamata” era sostanzialmente il loro lavoro, la loro ragion d’essere. Anche quella notte di settembre, l’unico motivo per cui schiodano dalla macchina dove stavano consumando un rapporto con due ragazze conosciute quella sera, è che i loro amici gli dicono: c’è una rissa, venite. E loro vanno.
Voi avete parlato con tanti che lo conoscevano. Chi era Willy Monteiro?
Fondamentalmente un “coatto” di Paliano (il paese del Lazio, a pochi chilometri da Colleferro, dove abitava, ndr). Un ragazzo molto, molto simpatico. Gli piaceva il rap, era fan di Noyz Narcos, teneva tantissimo alla sua macchina. Voleva fare il cuoco, lavoro per cui aveva studiato all’istituto alberghiero di Fiuggi. Ma era anche un lavoratore precario della ristorazione. Willy aveva un rapporto bello con la comunità capoverdiana, con le sue origini.
Però ecco, in generale è interessante raccontare le passioni e la vita quotidiana di Willy senza quell’immagine angelicata che se ne è voluta dare.
Non è che siccome era un ragazzo nero, doveva solo e per forza sognare di fare il calciatore della Roma – come lo mostra una vignetta di Mauro Biani uscita poco dopo la sua morte. La sorella ha precisato che non era certo quella la sua passione. E col pallone in realtà era un po’ “una pippa”. Edulcorare la verità non fa onore ai fatti.
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E per questo scrivi: “anche Willy in fondo voleva fare serata”, cioè era un ragazzo come gli altri. Il problema è che lui (prima del santino che se ne è fatto, suo malgrado) e la sua generazione sono stati fondamentalmente criminalizzati. Soprattutto nel 2020, all’epoca dei lockdown.
Miscomprensione, infantilizzazione, repressione: sono spesso questi i modi in cui si parla dei ragazzi sui media e nel discorso collettivo. Ma così rischiamo di non capire proprio nulla. Basti pensare che il nome di Willy è stato associato a un daspo contro chi commette delle risse, ovvero solo alla repressione. Non a un progetto di riqualificazione urbana, a un piano di riforma. scolastica, all’educazione, alla formazione. Pensiamo anche all’uso del “malamovida”, che condanna ma non spiega per nulla quella provincia e quella periferia dove i luoghi di aggregazione sono sempre meno. Parliamo di qualche locale dove ci si vedeva la sera dalle cittadine dei dintorni. Riflettiamo piuttosto sul fatto che in zone come quella manca banalmente un luogo dove andare a sentire un concerto.
Altro elemento da sottolineare: il racconto di una comunità è racconto collettivo. È capitato a Willy, ma poteva essere un altro al suo posto. E perfino gli assassini fanno parte di quello stesso contesto sociale.
Infatti, è una storia di ragazzi per tante ragioni. Una è che abbiamo voluto fossero loro stessi i co-autori. Abbiamo lavorato parlando con loro, sottoponendo le idee perché ne venisse una narrazione onesta, rispettosa. Non volevamo essere considerati alla stregua di altri giornalisti che hanno rubato un’espressione maldestra o un virgolettato che li stigmatizzasse.
Siamo entrati nel loro mondo in punta di piedi. E abbiamo raccontato questa generazione di precari, che lavora tantissimo.
Per esempio, se escono la notte e fanno le tre o le quattro, è semplicemente perché lavorano con turni di dieci ore in bar o ristoranti. Altro che ‘malamovida’.
Colleferro città de-industrializzata, la Valle del Sacco devastata da sversamenti e rifiuti tossici. Sono realtà socialmente difficili, soprattutto perché lasciate senza scuola. È da qui che nasce il male?
Si dice: la violenza nasce dal cuore dell’uomo. Ok, però alla base ci sono le scelte politiche miopi, le responsabilità pesanti da parte degli amministratori locali. Se ad Artena (la città da cui vengono i fratelli Bianchi, ndr) ci fosse stata una scuola – che invece manca -, magari per chi praticava la violenza come professione trovare un lavoro sarebbe stato possibile. Se invece si tolgono i servizi essenziali e nessuno si preoccupa di come gestire una scuola, si capisce come la violenza non può avere un’origine solo individuale. È una situazione che non si può cambiare se non partendo dalla società e dal territorio.
Saperenetwork è...
- Giornalista, laureato in Filosofia, ha cominciato sbagliando tutto, dato che per un quotidiano oggi estinto recensiva libri mai più corti di 400 pagine. L’impatto con il reportage arriva quando rimane bloccato dalla polizia sotto la Borsa di Londra con i dimostranti anti-capitalisti. Tre anni nella capitale inglese, raccontandola per Il Fatto Quotidiano, poi a Bruxelles, dove ha seguito le elezioni europee del 2014 e del 2019. Nel 2024 rischia di fare lo stesso, stavolta per Il manifesto.
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