Come volano le api, il futuro è distopia, tra memoria e rimozione
Un tempo indefinito, il mondo alle prese con le conseguenze di un morbo causato dallo sfruttamento sfrenato delle risorse naturali. È l’esordio sorprendente nella narrativa di Chiara Castello, un libro incredibilmente premonitore, tra distopia e racconto allarmato della realtà
Primo titolo de Le cantastorie, la collana dedicata alla narrativa contemporanea della casa editrice le plurali – realtà femminista sollecita alla cura di nuove voci – Come volano le api è l’esordio narrativo di Chiara Castello.
Un’opera che somiglia a una rasoiata, scritta un anno prima della pandemia da Covid-19 e terribilmente attuale, puntellata di disincanto e alienazione.
C’è da tagliarsi a sfiorarla, come a raccogliere pezzi di vetro, frammenti di un’esistenza anestetizzata in cui vige la legge del più forte e ogni deviazione è ridotta ai margini. Siamo in un mondo post-apocalittico, quasi post-umano, riplasmato dagli stravolgimenti di un morbo oscuro, causato dallo sfruttamento delle risorse naturali:
«Avete fatto scoppiare un bel casino. Avete bruciato le nostre case. Avete riempito il mare di plastica e il fiumi di scorie. Avete distrutto le vostre stesse città, vi siete sbranati a vicenda […] Ma noi eravamo lì, siamo stati lì per tutto il tutto. A respirare i vostri gas, a prenderci le vostre radiazioni, a crescere dove vi indebolivate tra voi. Siamo cambiati per colpa vostra. O dovrei dire per merito vostro. Ci siamo presi quello che avete abbandonato. Nell’ombra, siamo diventati più forti di noi».
L’atto di delega alla natura, che incarnandosi in «animale» o forse in «una pianta» racconta il rovesciamento della specie, la ribellione contro gli uomini, è – a tutti gli effetti – un tentativo di comprensione dell’indicibile.
Nessuno, nemmeno la protagonista Carla, sa cosa sia stato il grande Morbo. Nessuno ne conosce l’origine, o gli effetti immediati causati sulla popolazione.
Castello ci introduce in medias res, secoli dopo la fine della pandemia, quando i campi di allevamento umani (creati per scongiurare l’estinzione della specie) si sono evoluti in riserve di subumani. Carla vi è impiegata come infermiera, praticando ogni giorno l’anestesia morale; effettua punture sui neonati, incide loro la pelle, controlla giorno per giorno i numeri che identificano questi esseri altri, generati in laboratorio.
Non c’è azione, nella sua routine, che non sia dettata dallo straniamento: «La Riserva rapisce la mente, si ha bisogno di essere assenti per sopravviverle. Di nascere assenti oppure di annichilirsi per diventarlo. Io scelsi di spegnermi».
Questo lento spossessamento – condotto a partire dal corpo, dalla capacità autoindotta di silenziare il dolore, finanche i battiti del cuore – è reso da Castello mediante un’alternanza di voci, nella scelta della terza persona come tecnica distanziante, a porre un filtro tra sé e il mondo, tra le proprie passioni e l’obbligo a sopravvivere. È negli scarti improvvisi che cogliamo il dramma di questa giovane, nello spostamento dell’occhio fotografico verso l’io, quando Carla si fa insieme narratrice, soggetto che guarda e oggetto della sua stessa indagine.
Attraverso i suoi occhi, nei momenti di maggiore crisi, cogliamo il peso della dissociazione, tutto l’orrore pubblico e privato causato dal nuovo corso, quando i campi di subumani divengono riserve di caccia, luoghi in cui crescere prede addomesticate, da uccidere o “conservare” a seconda delle occasioni.
È un gioco al massacro, che Castello racconta per flash, riallacciando fili interrotti che rispondono ora alla memoria di Carla, ora al lento addestramento alla pratica della rimozione.
Come nelle migliori distopie (l’opera, scrive Giulia Abbate nella postfazione, «si riconnette a un chiaro filone concettuale, quello della distopia femminista antispecista»), il lettore oscilla tra familiarità ed elementi inauditi, «socialmente accettati» pur nella riprovazione. Il futuro che non si vuole vedere – ma che si sa immaginare – è dunque una porta d’accesso al nostro immaginario ideologico, capace di svelare il rimosso, l’ansia di essere parte dei soprusi, di contribuire – con le proprie azioni, con il silenzio, con l’ignavia – al depauperamento delle risorse. Non è un caso che l’intero testo risuoni di domande sulla specie, sulla distanza che intercorre tra umani, subumani, animali. Cosa li distingue? C’è differenza, se non in termini di vittime, nel tipo di abuso perpetrato?
Guarda il video di Come volano le api
Lo sguardo di Carla si fa allora strabico: mentre inizia la sua discesa agli inferi conosce il barlume della redenzione. Ha gli occhi di Pietro, apicoltore tenace, e la parola muta di Bianca, subumana che indica le nuvole e poi si tocca il petto, a segnare la corrispondenza tra cielo e terra, tra il sangue dei vinti e lo spirito della natura. Senza proferire parola, braccata nella brutalità di un universo concentrazionario, Bianca redime Carla, che nell’epilogo le dedica parole d’affetto, dopo aver appreso da lei l’arte della ribellione:
«Io spero che tu, Bianca della Riserva, possa ora vedere questa bambina, che ha preso il tuo nome, mentre vola libera come volano le api: soffermandosi ad annusare ogni fiore che la vita le offre, senza smettere di meravigliarsi a ogni diverso profumo».
È impossibile, per il lettore, non uscire scompigliato da questa storia, che affronta con acume la questione ecologica, le conseguenze sociali e psichiche di una pandemia, la costruzione di un femminile complesso e in relazione. Ma Come volano le api è soprattutto un libro che scopre la sua autrice, che ne svela il potenziale anche nei momenti di noia, quando tratteggia l’insolito quotidiano con limpidezza e stordimento, cercando di afferrare l’indicibile – come una meta insondabile.
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Ginevra Amadio si è laureata con lode in Scienze Umanistiche presso l’Università Lumsa di Roma con tesi in letteratura italiana contemporanea dal titolo Raccontare il terrorismo: “Il mannello di Natascia” di Vasco Pratolini. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e
violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di letteratura otto- novecentesca, cinema e rapporto tra le arti. Sue recensioni sono apparse in Oblio (Osservatorio bibliografico della letteratura otto-novecentesca) e sulla rivista del Premio Giovanni Comisso. Per Treccani.it – Lingua Italiana ha pubblicato un contributo dal titolo Quarant’anni fa, anni di piombo, sulle derive linguistico-ideologiche che segnano l’immaginario dei Settanta.
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