Festival Opera Prima, il teatro è rivoluzione. E danza
Si è conclusa la diciottesima edizione della manifestazione organizzata da Massimo Munaro e dal Teatro del Lemming a Rovigo. Piazze, parchi, spazi della città veneta per cinque giorni sono stati “contaminati“ dalla forza del teatro, in un turbinio di danza, corpi e voci
Le guerre e il degrado urbano, l’Africa misconosciuta e l’alluvione del Polesine, l’umano e l’animale. Si interroga sul presente anche quest’anno il Festival Opera Prima di Rovigo, arrivato alla diciottesima edizione, sopravvissuto a tagli e pandemia e sempre più convinto della necessità di un teatro capace di ribaltare ruoli e spazi codificati, come d’altronde ci hanno abituato l’organizzatore Massimo Munaro e il suo Teatro del Lemming, magari osando dar voce alla ricerca stilistica di giovani e giovanissime compagnie, portando di nuovo le performance in piazza, creando spazi di incontro e dialogo tra/con/per artisti, critici e pubblico, contaminando di teatro tutta la città.
Nel giardino Due Torri l’attore e danzatore libanese Bassam Abou Diab ha presentato Under the Flesh, nato durante le guerre che hanno straziato il suo paese, mentre Serena Gatti e la compagnia Azul hanno ambientato nel Parco Langer alla periferia della città il loro Sentieri #9, nuova tappa di Teatro in cammino verso luoghi da riscoprire come recita il sottotitolo del suo bel libro che racconta genesi e sottotesti del loro andare in scena per territori abbandonati, ispirati dal genius loci di paesaggi inconsueti, alla riscoperta di valori perduti come la pazienza e la meraviglia.
Il Parco Langer è «un rimorso e un rimosso» della città: una grande area verde tra la tangenziale, gli orti urbani e la casa di riposo per anziani dove una volta erano una chiesa e il poligono di tiro e che nell’abbandono il verde s’è riconquistato a poco a poco, ricoprendo di edere, ragnatele e arbusti tutte le rovine e i sentieri.
Ci incamminiamo in un piccolo gruppo, invitati al silenzio e allo stupore bambino, pronti a cogliere le apparizioni fugaci dei corpi tra gli alberi, un uccellino implume caduto dal nido, figure femminili come crisalidi, il suono di una chitarra davanti al grande cancello sul “fuori” che oggi proietta nella drammaturgia il ragazzo nero in bicicletta che ci guarda, lo scorrere delle automobili, i campi, il treno… Il luogo come spazio che rivive nell’incontro.
Tra estranei che diventano pubblico nel camminare; nei passi che saranno la metrica di quella “replica” assolutamente unica e irripetibile; nel passaggio tra spettatori e attori, quando si cedono il passo sul piccolo ponte-limen per scambiarsi ancora una volta di ruolo, di sguardi, di muti applausi.
Di corpi è fatto il teatro e i corpi hanno vivificato questa edizione del festival. Il corpo scattante e metamorfico di Giselda Ranieri e dei suoi Blind Date giocati in piazza con musicisti mai incontrati prima e il pubblico ogni giorno diverso; quelli sincroni, forti e teneri del duo israeliano di Gil Kerer che ha danzato sulle note del concerto di Vivaldi per mandolino e archi; il corpo quasi immobile di Ascanio Celestini che qui ha riportato, dopo vent’anni dal debutto, il suo spettacolo-simbolo, Radio Clandestina sull’eccidio dei corpi massacrati delle Fosse Ardeatine e i corpi ieratici degli ateniesi Zero Point Theatre, diretti dall’allievo del grande regista Terzopoulos Savvas Stroumpos nell’intensa versione di Una relazione per un’accademia di Franz Kafka. Sette interpreti nella sala spoglia del Teatro Studio per raccontare a voci alterne la grottesca vicenda di Rotpeter, la scimmia ferita e catturata che agli accademici illustra, con irreprensibile dovizia linguistica e scientifica, la sua via di fuga dalla prigionia.
«Non desideravo la libertà allora come non la desidero oggi. Fra parentesi: parlando di libertà gli uomini si ingannano un po’ troppo spesso. E come la libertà va annoverata fra i sentimenti più sublimi, così anche il corrispondente inganno è dei più sublimi», spiega Rotpeter mentre rievoca il suo lento apprendistato verso l’umano, dalla stretta di mano all’alcol, fino alla conquista del linguaggio e del pensiero, guidato da un impulso irrefrenabile all’imitazione, specchio deformato e deformante di quella soglia tra l’uomo e l’animalità che con tragica ironia Kafka, maestro di soglie, ha scritto nel 1917 e che oggi, un piede già dentro il metaverso e il transumanesimo, assume ulteriori, sconcertanti prospettive.
Vestiti di rosso, gli attori di Zero Point recitano con una fisicità assoluta che si esprime nei sussulti del corpo di una performance fisica che ricorda il training del più rigoroso teatro grotowskiano e condensa in settanta minuti l’essenza della tragedia e del dionisismo. Teatro delle origini, dialogo tra coro e interprete senza catarsi, resi con una vocalità ardente e spericolata che la sonorità plastica della lingua greca fa sussultare e ansimare fino a tracimare in canto. Ha tracimato in danza collettiva, invece, lo spettacolo di Aldes e Roberto Castello Mbira, già finalista agli Ubu nel 2019, concerto per due danzatrici (Ilenia Romano e Giselda Ranieri, meravigliosamente vitali e trascinanti), la presenza ritmica di Marco Zanotti e il griot maliano Zam Moustapha Dembélé alla kora, balafon e voce.
Un viaggio nell’Africa a partire dallo strumento originario dello Zimbabwe che dà il titolo allo spettacolo che negli anni Ottanta fu al centro di una provocazione al sistema musicale occidentale, con inevitabili risvolti economici e razziali. Un pre-testo per parlare dell’Africa che dal 1884 pensiamo di aver civilizzato ignorandone profondamente la storia, le tradizioni e lo spirito, quel divenire continuamente presente, pulsante e improvvisante che ha stravolto tutta la musica del mondo e a cui continuiamo ad opporre la nostra visione cristallizzata e rigidamente contemplativa dell’arte.
«Se non posso ballare, questa non è la mia rivoluzione», decretò la prima anarco-femminista Emma Goldman, ci ricorda Castello al culmine di questo spettacolo-concerto che ben presto è un invito a rompere le righe, a lasciarsi estaticamente andare alla danza più gioiosa per mescolare attori, spettatori, danzatori, culture e sudore.
In pieno rispetto alla filosofia del Festival Opera Prima. Che l’altra sera, nel suo piccolo, ha scelto la sua rivoluzione.
Guarda il video del Festival Opera Prima
Saperenetwork è...
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Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.
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