Flee, inno alla libertà, in nome di un’Europa accogliente per tutti
Esce il 10 marzo nei cinema italiani, distribuito da I Wonder Pictures, Flee, documentario animato, candidato a tre premi Oscar, sulla fuga di Amin e della sua famiglia da Kabul. Uno sguardo quanto mai attuale sulle conseguenze delle guerre
Ha subito dimostrato le sue potenzialità, Flee, quando lo scorso anno è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival: ricevendo il premio della giuria, conquistando all’unanimità il favore del pubblico e della critica, nonché il plauso della comunità LGBTQI+. Ha inoltre capitalizzato una serie di nomination prestigiose: ai Golden Globe per il miglior film d’animazione, ai BAFTA per il miglior film d’animazione e miglior documentario, agli Annie Awards, miglior film d’animazione indie, miglior regia, miglior sceneggiatura e miglior montaggio, e agli Oscar, miglior film d’animazione, miglior documentario e miglior film internazionale.
Il documentario animato del regista danese Jonas Poher Rasmussen arriva nelle sale italiane il 10 marzo e in questi giorni, in cui la fuga dei profughi dalla guerra in Ucraina appare in tutta la sua drammaticità, il messaggio proposto dalla storia vera raccontata nel film si fa ancora più urgente: che la tragedia di Amin, minore afghano accolto in Danimarca perché non accompagnato, dopo mesi di clandestinità a Mosca e traversate della fortuna del Mar Baltico, non si ripeta mai più.
Ormai trentaseienne, Amin Nawabi è un affermato docente universitario e sta per sposarsi con Casper, il suo compagno. Ha raccontato a tutti di aver perso tutta la sua famiglia a Kabul, ma sul punto di sposarsi è pronto ad affrontare il proprio passato e a concedere un’intervista a Jonas Poher Rasmussen, amico d’infanzia divenuto regista e documentarista radiofonico. Ripercorre così gli anni dell’infanzia in Afghanistan, la fuga a Mosca, con la madre, un fratello e le sorelle, l’arrivo a Copenaghen e la richiesta d’asilo.
«Amin voleva fare i conti con il suo passato, perché tutto il trauma associato alla sua infanzia stava creando una distanza tra tutti nella sua vita. Non essere in grado di condividere il suo pieno sé era diventato un pesante fardello. Inoltre, voleva condividere la sua storia anche per far capire alla gente cosa significa fuggire per salvarsi la vita» ha spiegato il regista.
«L’animazione l’ha fatto sentire a suo agio: potevamo usare la sua vera voce nel film ma sarebbe comunque rimasto anonimo. E questo era importante per Amin, perché ha una famiglia che è tornata in Afghanistan e vuole rispettare anche la loro privacy».
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Flee utilizza soprattutto animazioni a colori 2D convenzionali per mostrare eventi veri nel passato del protagonista, incorniciati come istantanee vivide dei suoi primi anni. Altre sequenze, in modo più grafico e astratto, corrispondono a eventi traumatici della sua vita, tra cui scene strazianti della sua famiglia in fuga da Mosca, vittima dei trafficanti. Una serie di scene live-action tratte dai cinegiornali d’epoca, intervallate alle animazioni, collocano la storia di Amin nello spazio e nel tempo, rafforzando allo stesso tempo la natura documentaria del progetto.
«Volevo aggiungere i filmati in modo che ogni volta che si vede un cinegiornale, ci si ricordi che si tratta di un documentario: crea un contesto storico per il film, ma sta anche dicendo al pubblico che questa storia è reale, non è finzione».
Non è fiction la traversata della foresta russa, sotto la neve, per raggiungere la costa baltica, come non è fiction il disimpegno sovietico in Afghanistan, dopo 10 anni di invasione, e l’affermazione dello stato islamico, nel 1992; l’arrivo a Mosca, in una capitale sempre più affamata e più corrotta; la salvezza in un’Europa restia ad accogliere i profughi, quando di etnia, religione, provenienza “sbagliata”.
Malgrado l’Afghanistan, dagli anni Settanta, abbia rappresentato l’epicentro di alcune tra le più gravi crisi umanitarie al mondo. In seguito all’invasione sovietica del 1979, sono stati costretti a lasciare il Paese 4 milioni di afghani, diretti soprattutto in Pakistan e in Iran. La guerra civile che ha favorito l’ascesa dei talebani, negli anni Novanta e, successivamente, l’intervento nel 2001 a guida statunitense, hanno contribuito a creare nuove ondate di profughi.
A oggi, l’Afghanistan è al secondo posto al mondo per numero di rifugiati all’estero (2,7 milioni di persone secondo le stime dell’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati), dietro soltanto alla Siria. Nel 2018, la Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan ha documentato il numero più alto di civili uccisi mai registrato, che include il numero più alto mai registrato di bambini uccisi nel conflitto.
Dall’inizio di questo 2022, sempre secondo l’Unhcr, oltre 98 mila famiglie afghane sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni, a Kabul come nelle campagne, a causa degli scontri armati. La popolazione è stremata da oltre 40 lunghi anni di conflitti e deve convivere in drammatiche condizioni di insicurezza e di povertà estrema, senza una casa dove vivere, con pochissimo cibo e senza alcuna assistenza sanitaria.
Eppure, in questi anni, il tasso di riconoscimento dello status di rifugiato ai cittadini afghani nei paesi membri dell’UE si è notevolmente ridotto. Anzi, per i governi dell’Unione Europea la priorità sembra essere quella di evitare che si verifichi una nuova crisi migratoria, come quella avvenuta nel 2015 in seguito alla guerra siriana.
Nel frattempo, i 27 Stati dell’Ue hanno dato il via libera per applicare, per la prima volta nella storia, la direttiva per la protezione temporanea degli sfollati e accogliere chi è in fuga dall’Ucraina. Già quasi un milione di rifugiati ucraini ha varcato la soglia dell’Unione Europea questa settimana. Le stime parlano di un esodo di 7-8 milioni di persone, mentre secondo le ultime previsioni dell’Onu i profughi potranno essere anche più di 10 milioni.
Quasi che, a vedere la guerra come qualcosa di normale e di scontato per un determinato popolo, sia più facile girarsi dall’altra parte.
Flee arriva dunque a rammentare, con cogente amarezza, che anche in Afghanistan la guerra è mostruosa, anche in Afghanistan le famiglie avevano cani e gatti, ascoltavano la musica e i bambini giocavano a pallone nei cortili. È pronto a ricordare come il rifugiato sia “una persona che è scappata dal proprio Paese per cercare protezione in un altro”, a prescindere se sia bianco o nero, cristiano o musulmano, se provenga dall’Afghanistan, dal Sahel o dall’Ucraina.
Saperenetwork è...
- Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.
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