Diego, il cielo in una maglia
Definirlo controverso è troppo poco, estremo è troppo semplice. Il campione venuto “dall’altra parte del Mondo” è morto ieri a 60 anni nella sua casa di Tigre, nella sconfinata provincia di Buenos Aires. Una figura straordinaria, anche per il significato simbolico che ha assunto, al di là del calcio e del tifo
La notizia l’hanno riportata per primi il quotidiano argentino Clarìn e la Cnn. È stato un arresto cardiorespiratorio, stavolta fatale per il Pibe de Oro. Diego Armando Maradona è morto così, una manciata di giorni dopo aver compiuto 60 anni e dopo aver subito un’operazione importante alla testa, da cui sembrava essersi perfettamente ripreso. Secondo il Clarìn, negli ultimi giorni era apparso “molto ansioso e nervoso” a parenti e famigliari, motivo per il quale era stata rilanciata l’idea di trasferirlo a Cuba per la riabilitazione. E invece nell’isola caraibica celebre per l’eccellenza dei suoi medici, dove aveva già soggiornato, su consiglio dell’amico Fidel Castro, per ben 5 anni (dal 2000 al 2005) riuscendo a disintossicarsi, non tornerà più. Si è spento il 25 novembre alle 13.02 (ora argentina) nella sua casa del Barrio San Andrés, nella città di Tigre, nella sconfinata provincia di Buenos Aires, da cui tutto era partito.
Centrocampista offensivo, mancino, con una straordinaria visione di gioco, rinomato per il controllo del pallone e per la precisione dei passaggi, abilissimo nel dribblare, grande fantasia e tattica da vendere. Aveva, cosa rarissima, un notevole spirito di sacrificio e senso della squadra. Un talento immenso, ineguagliabile addirittura a detta dei più grandi, da Pelé a Platinì, che di lui diceva «Quello che io riesco a fare con il pallone, lui è capace di farlo con un’arancia», è stato spesso definito il calciatore migliore di tutti i tempi.
Che lo sia stato o meno, non ha grande importanza, almeno non quanta ne ha avuta la sua figura rivoluzionaria.
Estroverso, eccentrico, rimasto sempre fedele alle origini umilissime (e vere, non costruite a tavolino, né fomentate dall’autonarrazione e da sapienti uffici stampa per accattivarsi le simpatie del pubblico), cocainomane. «Ti immagini che giocatore sarei diventato, se non fossi stato un tossicodipendente?», scherza con Emir Kusturica nel documentario che il regista serbo gli ha dedicato nel 2008. Sregolato nella vita privata e nei rapporti con le donne (è padre di cinque figli riconosciuti legalmente), eppure affezionatissimo alla famiglia, amico del peronista Carlos Menem e di Fidel Castro, di Hugo Chavez e Christina Kirchner, ammiratore di Ernesto Che Guevara e nemico giurato di George W. Bush. Attaccò i vertici della Fifa, denunciando irregolarità (quale altro calciatore ne ha avuto il coraggio?), e criticò persino il pontificato di Giovanni Paolo II. Rifiutò, nel 1986, di stringere la mano a Carlo d’Inghilterra, perché “sporca di sangue”delle guerre per le Falkland. E al tempo stesso, fu frequentatore del clan Giuliano di Forcella, la “famiglia” che negli anni ’80 disseminò le strade di Napoli di morti ammazzati, in guerra contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
Un uomo che definire controverso è poco e descrivere come estremo è troppo semplice. Forse perché, pur essendo un dio del pallone, è sempre stato profondamente, onestamente umano. Un campione venuto “dall’altra parte del Mondo”, per usare la definizione che decenni dopo sarà del Pontefice suo connazionale, catapultato nel cuore di una Capitale mediterranea decadente ma mai decaduta, acciaccata e martoriata da disoccupazione e miseria endemica, criminalità e anti Stato, un’epidemia di colera, un terremoto devastante, in piena guerra di camorra. Questa era la Napoli che il 5 luglio 1984 accolse, con i cori di circa ottantamila persone, Maradona alla Stadio San Paolo. Nella prima stagione del Pibe de Oro al Napoli, la squadra arrivò al centro classifica. Nel 1986-87, sotto la guida di Ottavio Bianchi, il Napoli vinse il suo primo scudetto (il secondo sarà nel 1990) nel campionato nazionale, dopo aver battuto, dopo trentadue anni, la Juventus, allo Stadio Comunale di Torino. La Juventus dell’Avvocato Agnelli. Forse non è immediato, per i non meridionali, capire l’entità di questo evento. Diego, che veniva dall’altra parte del Mondo, invece lo aveva capito subito: «Si pensava – dirà tanti anni dopo, ricordando – che mai una squadra del Sud avrebbe potuto battere la Juve, o un’altra grande squadra del Nord». Non è una questione di tifo, è una rivoluzione, è il riscatto degli ultimi, guidati da un ultimo diventato primo al mondo. Nel 1986, a pochi anni dalla guerra delle Malvinas-Falkland realizza il goal del secolo con la sua Argentina, contro l’Inghilterra. «Santa Maradona, Priez pour moi». E così è stato.
Per capire la fenomenologia di Maradona, forse bisogna capire (sapere o ricordare, non importa), che cosa questo ha significato per la città che lo ha accolto, rendendolo praticamente il suo secondo Santo Patrono.
Strana coincidenza, da cui non si può prescindere: Diego è morto due giorni dopo il quarantesimo anniversario del terremoto dell’Irpinia, che devastò mezzo Sud, Napoli inclusa. Il ragazzo argentino nato povero e divenuto campione, arriva in una ex capitale di un ex Regno, piena di ferite, alcune recenti, altre ataviche. Capitale simbolica di un Sud in macerie, già da prima delle scosse mortali del 1980. Città di mare, dall’identità marcatissima eppure spalancata al nuovo e al Mondo, greca, spagnola, francese, e poi persino americana. Vulcano e mare. Stracciona e regale, di luci, splendore mai rimosso («Ma quelle sono fantasie per forestieri», diceva Filomena Marturano), e profonda oscurità dietro l’angolo.
Il campione venuto dall’altra parte del Mondo, dal Nuovo Mondo, forse qui si è sentito a casa, perché ha girato quell’angolo e ha trovato davvero casa sua. È mai esistito nella storia, non solo del calcio, tra una città e un personaggio celebre, un “forestiero”, un legame del genere?
Basta questa domanda per capire “perché”. Nonostante tutto, nonostante il buio, gli sbagli, le cadute, la fatica a rialzarsi. Masaniello del Nuovo Mondo, icona internazionalista (e non globalizzata: oggi si taglierebbe corto usando un termine alla moda, “g-local”, ma non ha niente a che fare né con Napoli, né con Diego), Santa Maradona e Tango della Buena Suerte, Mano Negra e Pino Daniele. «Si yo fuera Maradona, Frente a cualquier portería». Se fossi Maradona, di fronte a qualsiasi obiettivo, canta Manu Chao. Iconoclasta capace di inchinarsi davanti a una Madonna, i chili di troppo, i figli dispersi, i guai con il fisco, capace di non risparmiarsi in una partita su un campo improvvisato con i bambini terremotati. E poi la droga e i favori dei clan.
Un punk, suo malgrado e in totale inconsapevolezza, sorta di Sid Vicious latino vissuto qualche anno in più, imbolsito e affaticato come un personaggio di un film di Robert Rodriguez. Da Napoli, che nel 2017 lo ha reso suo cittadino onorario, non si è mai davvero staccato.
«La vida es una tòmbola, De noche y de dia», canta di nuovo Manu Chao. Una tombola, anzi una Smorfia. È il numero 10 il suo, ovviamente. Sognarlo significa “un felice presagio”. Luce, palazzi reali, corti europee, rivoluzione illuminista. Ma anche ombre, miseria, precipizio, sventura. Un equilibrio magmatico, millenario, assoluto. Stabile nell’irrequietezza. Essere tutto, e quindi il contrario di tutto, “fino all’ultimo respiro”. «È troppo tardi, ormai, per avere paura», dice Jean Seberg in À bout de souffle di Jean-Luc Godard. Fino alla fine del mondo, il nuovo, il vecchio e poi di nuovo indietro, da capo. Eppure restare coerenti. Questo è stato Diego Armando Maradona, e non è poco.
Saperenetwork è...
- Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.
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