Trenta righe sull’ambiente se non succede qualcosa
Il 27 ottobre saranno cent’anni dalla nascita di Antonio Cederna, il grande giornalista e intellettuale, fra i “padri” del movimento ambientalista italiano. Sapereambiente celebrerà questa scadenza con un live. Nel frattempo ripubblichiamo, per gentile concessione dell’Archivio Antonio Cederna, un suo illuminante articolo uscito sul “Corriere della Sera” nel 1980 circa l’interesse “tiepido e saltuario” dei mezzi d’informazione verso la crisi ambientale
SPECIALE ANTONIO CEDERNA: Perché dobbiamo ricordare Antonio Cederna, oggi, di ROSY BATTAGLIA | Il mio amarcord del maestro, di GRAZIA FRANCESCATO
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Lo scarso spazio riservato dai maggiori giornali alla recente conferenza di Venezia sulla sicurezza delle centrali nucleari e la scarsissima attenzione dedicata agli argomenti degli avversari dell’energia nucleare sono l’ultima conferma del tiepido interesse che la stampa italiana dimostra da sempre per i problemi dell’ambiente, della qualità della vita, delle risorse naturali, dell’ecologia, dell’inquinamento, del territorio generale.
È un interesse tiepido e saltuario, che rispecchia ovviamente l’arretratezza della cultura italiana in materia. Una cultura, come sappiamo, figlia dell’arcadia e dell’accademia, fatta di laureati in belle lettere, di letterati e di avvocati, risultante, per dirla un po’ all’ingrosso, dalla miscela di cattolicesimo, idealismo e marxismo.
È una miscela che finora non ha dato buoni risultati: il cattolicesimo ha dissacrato la natura, e ci ha dato un papa che benediceva il tiro al piccione (fa eccezione l’ultima enciclica del papa attuale), l’idealismo ci ha insegnato che la natura non esiste, che le scienze sociali non sono una cosa seria e per decenni ha tolto l’insegnamento delle materie scientifiche dalle scuole; il marxismo, almeno nella sua vulgata, ha per decenni predicato il carattere sovrastrutturale di ogni intervento razionalizzatore di ambiente e territorio, rimandando alla palingenesi finale la soluzione dei problemi, e solo recentemente ha cominciato ad affrontare seriamente i problemi ambientali. Così che San Francesco e Carlo Cattaneo appaiono assai poco italiani, meteoriti cadute dal cielo e sperse nella nebbia.
Per sommaria che sia questa analisi, essa sta a significare che, prima ancora della speculazione edilizia e industriale, prima del culto della rendita fondiaria, prima della politica di rapina territoriale ispirata al disprezzo dell’interesse pubblico esercitata da trent’anni di dominio delle peggiori forze economiche, alla base del saccheggio del nostro Paese sta una grave carenza di cultura, una grave sottovalutazione del problema: e dunque, questa è la difficoltà, come pretendere di aver ragione di profittatori, speculatori e distruttori se non s riesce a mobilitare intellettuali, letterati e scrittori afflitti da una simile ignoranza in fatto di ambiente e territorio?
Non è qui il caso di fare il diagramma dello spazio riservato dai giornali ai problemi ambientali negli ultimi dieci anni, da quando cioè l’ecologia, almeno da noi, si è imposta all’attenzione generale. È un diagramma che alterna lunghe cadute a brevi impennate; nel deprimente spettacolo della stampa quotidiana, con la sua intima percentuale di spazio riservata a questi problemi, il “Corriere della Sera” è quello che mediamente meno sfigura: le punte massime si devono, in sostanza, al periodo di Giulia Maria Crespi.
Certo è che, ai vizi generali della nostra cultura, vanno aggiunti alcuni vizi particolari del nostro giornalismo.
Il primo vizio consiste nella granitica pretesa, in chi fa un giornale, di sapere quello che interessa al pubblico dei lettori. È una pretesa che non si sa su cosa si basi, dal momento che nessun giornale ha mai promosso, che si sappia, una seria indagine di opinione (o se l’ha promossa l’ha tenuta nascosta) per sapere quello che il pubblico vuole. Ci fosse più attenzione all’Italia reale, ci si accorgerebbe che da tempo il dibattito culturale e politico locale, in comuni, province e regioni, da un capo all’altro d’Italia, è prevalentemente incentrato sulle questioni dei piani regolatori, della difesa dell’ambiente, della lotta all’inquinamento, della salvaguardia dei beni culturali, della difesa della natura: e che questo moltissima gente vorrebbe veder trattato sui giornali, anziché essere oppressa da pagine e pagine sacrificate alle chiacchiere del Palazzo, alle insulse dichiarazioni di onorevoli, al nauseante bizantinismo politico, alle prediche letterario-teologiche.
Il secondo vizio è la pretesa di “imparzialità” e di “obiettività”, ossia, come ha detto un famoso direttore in una famosa intervista, il principio che il giornalista deve essere soltanto “spettatore” e quindi “riferire ciò che crede di aver capito indipendentemente dalle proprie preferenze”.
A parte tutto quello che si potrebbe dire circa l’obiettività dei giornali che pretendono di essere obiettivi, come si può essere spettatori imparziali di una speculazione edilizia, di una fuga di diossina, di una morte in fabbrica per inquinamento, eccetera?
Di fronte a questi fatti si deve essere parziali per principio, anche solo per buona educazione: l’imparzialità sarebbe solo complicità, e infatti imparziali sono solo quei giornalisti che vengono, per dir così, plagiati dalle società immobiliari, dalle imprese industriali e dagli inquinatori.
Terzo vizio è l’incostanza, l’annoiarsi presto, il precoce fastidio, e quindi la propensione a degradare a moda passeggera i problemi seri. Nulla di più umiliante per un giornalista cercare di convincere i superiori, all’altro capo del telefono, dell’importanza di un dato argomento. Qualche brontolio, molte obiezioni, e poi, strappato il consenso e assegnate le righe, ecco la frase che lascia senza parole: “Sì, l’articolo te lo pubblichiamo oggi su domani se non succede qualcosa”. Se non succede qualcosa! Come dire che nel giornale non c’è uno spazio prestabilito per l’ambiente e l’urbanistica, e che qualunque accidente di cronaca, omicidio di suocera o bomba molotov, può far saltare l’articolo o sottoporlo alle solite sforbiciate a tradimento.
E con questo arriviamo al vizio di fondo del nostro giornalismo, cioè al culto maniacale e nevrotico della “notizia”: quella “notizia” che, secondo quanto ai giornalisti è stato insegnato fin dalla culla, deve essere il fine ultimo, la ragione di essere esclusiva del loro mestiere; quella “notizia” che, come ci siamo sentiti ripetere fino alla nausea, deve essere, ohibò, separata dal “commento” come il diavolo dall’acqua santa; quella “notizia”, infine, alla quale sacrificano con civetteria anche le grandi firme quando, nel corso di impegnative inchieste su qualche grave problema nazionale, si rivolgono ai lettori autodefinendosi umilmente “il vostro cronista”. Cosa per cui, come è detto ancora in quella celebre intervista, il giornalista non dovrebbe far altro che “augurarsi che le cose accadano, che siano interessanti, che lui se ne accorga prima degli altri e che sappia prima degli altri capire come andrà a finire…”.
Conseguenza di questo modo di pensare, per quanto riguarda la questione ambientale, urbanistica, ecologica, sarebbe che dovremmo augurarci un’alluvione al mese, una fuga di diossina ogni semestre, un affondamento di petroliera nel Mediterraneo ogni estate, un furto di Piero della Francesca alla settimana: queste sì, vivaddio, sono belle e buone ed eccitanti notizie, anche da prima e terza pagina, per le quali mobilitare le grandi e perfino le grandissime firme.
Però è impossibile che uno se ne accorga prima degli altri (strana pretesa agonistica del resto, in un Paese in cui vengono letti 0,09 quotidiani per abitante), dal momento che sono fatti che ti cascano addosso come tegole sulla testa, e due giorni dopo non se ne parla più.
Notizia, dunque, nella pratica corrente del nostro giornalismo, è sinonimo di “fatto”, di accidente, di cosa comunque accaduta: ed è qui che quel culto maniacale di cui dicevo produce, per quanto riguarda l’argomento che ci interessa, i suoi effetti deleteri, dal momento che, come insegna l’esperienza, le notizie ritenute degne di essere menzionate e trattate sono quelle che si identificano coi fatti compiuti, ossia con gli eventi catastrofici.
Notizia uguale a catastrofe: questa è l’essenza del nostro giornalismo nella questione ecologica e ambientale.
E, infatti, a sfogliare le collezioni, ci si accorge che si scopre l’urbanistica quando frana Agrigento sotto il peso di ottomila vani abusivi; si scopre il dissesto idrogeologico quando Venezia o Firenze vanno sott’acqua o i treni deragliano per una frana; si scopre l’importanza della vegetazione quando d’estate i boschi vanno a fuoco; si parla un po’ diffusamente di edilizia popolare quando per conquistarsi una casa si fa la guerriglia urbana, o quando sul Paese si abbattono a cicli ricorrenti, come nei secoli scorsi la peste, le sentenze della Corte costituzionale; si scopre l’importanza del verde pubblico quando un bambino affoga nelle “marane”, l’inquinamento quando viene il colera, e via dicendo.
Il giornalismo si riduce a passiva registrazione di fatti luttuosi quanto clamorosi, con relativa deplorazione che lascia il tempo che trova: l’ecologia viene degradata a cronaca nera. Si rileva così l’inconsistenza di quell’altro sbandierato principio secondo il quale il giornalismo dovrebbe essere lo “specchio della realtà” quegli stessi fatti catastrofici vengono regolarmente sottoposti dai signori della notizia a una selezione soggettiva, discrezionale, legata a umori e insofferenze, con tanti saluti alla completezza dell’informazione. I disastri soppesati in base al numero dei morti, all’entità delle distruzioni e dello scompiglio politico che suscitano: quelli considerati minori, e che sono la norma, e che sommandosi portano il Paese allo sfacelo fisico vengono trascurati perché, alle solite, si assicura che annoiano e che non interessano il lettore.
E che dire di quell’altra fissazione di cui i signori della notizia vanno fieri, quella dell'”attualità”?
Avendo identificato la notizia con il disastro clamoroso, la loro “attualità” è sempre postuma: arrivano cioè sempre, immancabilmente, malinconicamente, comicamente in ritardo, a morti e distruzioni avvenute, a nubi di diossina scappate, a fognature scoppiate, a quadri rubati, a bagni proibiti, a boschi bruciati, a vibrioni ingeriti, a frane franate. Sempre dopo, sempre a rimorchio degli eventi, per non avere affrontato e approfondito per tempo e con la necessaria costanza i problemi: e i lettori li si fa assistere soltanto all’ultimo atto della tragedia, per di più col soffitto del teatro che cade sulla testa degli spettatori (solo i bimillenari, i centenari, i cinquantenari, eccetera, arrivano puntuali). Altro che specchio della realtà: i nostri giornali, per quanto riguarda ambiente e sociologia, rischiano di diventare semplici bollettini di guerre perdute, elenchi di morti e dispersi, fogli di soli necrologi, per di più senza alcun profitto economico per l’azienda.
Da quanto s’è detto risulta che è necessario cambiare metodi e mentalità. Occorre cominciare a rendersi conto che, nella questione ambientale, ogni distinzione tra fatto e problema, tra notizia e commento, tra attuale e non attuale, tra importante e non importante, tra obiettività e parzialità, eccetera, è una discriminazione di comodo, falsa e pretestuosa. Ogni angolo del territorio è prezioso e insostituibile, quale che sia la sua consistenza storica o naturale: Gorgonzola come Venezia. E ancora: le linee che in questo momento l’oscuro geometra di uno degli ottomila comuni italiani sta tracciando sulla mappa dl piano regolatore, sotto la pressione dell’ignoranza o della speculazione, sono un “fatto”, una “notizia” altrettanto importante del vacillare del Colosseo, dell’inaugurazione dell’ultima inutile autostrada, dell’epidemia dovuta all’inquinamento dell’acquedotto, della grande alluvione di turno, dello sprofondamento di Ravenna.
Lo stato delle fognature, la sopravvivenza del paesaggio, lo stato dei servizi pubblici nelle città, l’erosione galoppante del suolo, il risanamento dei centri storici, i guasti dell’industrializzazione selvaggia, il costo sociale degli inquinamenti, la conservazione del sottobosco e dei suoi lombrichi, la difesa dei camosci e la creazione di parchi nazionali e naturali, la pianificazione dei litorali, il funzionamento dei musei, l’attuazione dei piani regolatori, il disinquinamento di aria e acque, eccetera eccetera. Questa è la realtà italiana, queste le cose ordinarie che vanno trattate quotidianamente e continuamente sui giornali perché la vita quotidiana degli italiani si svolga in condizioni un po’ più decenti.
Questo è il realismo di cui deve dar prova la stampa, se davvero vuol essere specchio fedele, non deformante, della situazione: irrealista, evasiva è la stampa quando trascura queste cose ordinarie e le sottomette a una selezione capricciosa.
E invece i nostri giornali, come la Cassa per il Mezzogiorno, si occupano solo di cose straordinarie: salvo poi sacrificare pagine e pagine all’inesausto chiacchiericcio politico, alle dichiarazioni di questo e quell’onorevole, e poi all’intervista dl medesimo e poi al commento dell’intervista e poi alle dichiarazioni dell’onorevole avversario e poi all’intervista del medesimo e poi al commento della stessa (per tacere di centenari e cinquantenari e millenarie ricorrenze). È la lutulenta, strabocchevole e stucchevole cronaca del Palazzo, secondo un inesauribile copione che si ripete da decenni e che, chissà perché, si continua a credere che appassioni straordinariamente la massa dei lettori, i quali probabilmente si limitano invece a leggere occhielli, titoli, e sottotitoli, in generale sufficienti a capire di che si tratta.
Sia dunque lecito avanzare qualche opinione diversa, per quanto scandalosa possa sembrare. In questo, come in altri campi, il compito del giornalismo deve essere, oltre che informativo, formativo e preventivo. L’informazione accidentale, improvvisata e sussultoria a rimorchio dei fatti straordinari, i commenti deplorativi, tardivi e funerari, per quanto doverosi, servono a poco se non sono preceduti e accompagnati da un’informazione costante, continua e sistematica sui problemi che vanno affrontati e risolti in sede politica e amministrativa affinché i disastri, se possibile, vengono evitati. È quindi anche ora di smetterla di considerare non più attuale una catastrofe ventiquattrore dopo che si è verificata: la questione ecologica italiana è una questione di attualità permanente. Tutta l’Italia è potenzialmente una Seveso, un’Agrigento, una Gioia Tauro, tutta l’Italia è permanentemente sotto la spada di Damocle delle micidiali sentenze della Corte costituzionale. Sono dunque i problemi che devono diventare notizia: ad esempio, dei boschi bisogna occuparsi d’inverno quando piove, e non solo d’estate, con articoli approssimativi e precipitosi, quando vanno a fuoco. Solo così si può sperare che, tra l’inverno e l’estate, chi può provveda a evitare che vadano a fuoco.
A meno che (e sarebbe deprimente) uno come me non abbia capito nulla e quindi abbia sbagliato tutto nella sua vita, compito del giornalista dovrebbe essere quello di scrivere perché le cose nel Paese cambino in meglio: nonostante autorevoli pareri in contrario, bisogna dunque ricominciare a fare campagna di stampa sia per influire su chi ha potere e dissuaderlo dalla bestialità che sta per compiere, sia per aiutare la gente a rivendicare i propri diritti elementari, il diritto a condizioni ambientali meno inumane, in città, al lavoro, nelle campagne, a scuola, nei luoghi del tempo libero.
Del resto, le campagne di stampa mi pare siano in grande onore nella stampa inglese e americana, cui spesso, a parole, i nostri signori della notizia dicono di volersi rifare. Più in concreto, bisogna che i giornali, senza aspettare i maledetti fatti catastrofici, diventino sul serio specchio e compendio della realtà ambientale in tutti i suoi aspetti. Essi devono dare conto sistematicamente dei lavori parlamentari in materia, dell’attività di consigli comunali e regionali, discussioni, proposte di legge, leggi, indagini, studi, ricerche: come pure dell’attività, degli studi, delle denunce, delle proteste e delle proposte delle associazioni protezionistiche e urbanistiche, dei gruppi di pressione sparsi in tutta Italia. La provincia italiana è ricchissima di intelligenze e di competenze, di gente che si batte rischiando spesso di persona contro malgoverno, soprusi e speculazioni: è semplicemente antigiornalistico e autolesionistico non tenerne conto, è antisociale, razzistico, antipatriottico non dare voce e ascolto e spazio a tutte queste energie spesso giovanili che lottano per un’Italia diversa.
Rubriche fisse? Pagine speciali o no? È da vedere, se ne cominci a discutere. Un giornale straniero cui spesso i superiori si rifanno è “Le Monde”: un giornale che ha pagine fisse dedicate all’aménagement du territoire e a équipement et regions. Aménagement e équipement: due parole, due concetti che qui in Italia nemmeno si sa come tradurre, perché le cose cui corrispondono le abbiamo sempre sottovalutato, disprezzate, irrise, col risultato che la maggioranza dei giornalisti non sa nemmeno cosa sono. A questo proposito sarebbe anche opportuno che gli stati maggiori dei giornali si fidassero un po’ più di quei giornalisti, ben pochi, che si occupano prevalentemente ed esclusivamente di questi problemi, dimostrando di avere i due requisiti richiesti: avere una certa competenza e credere in quello che scrivono. Direttori, vicedirettori, eccetera (che non possono ovviamente essere onniscienti) diano ascolto a costoro e si lascino convincere a trattare quegli argomenti che costoro gli suggeriscono.
Il giornalismo italiano, ed è una bella cosa, va verso un certo riconoscimento delle specializzazioni: ma stiamo attenti anche qui al riflusso. Quando, due anni fa, si rievocò la figura dell’illustre direttore della Stampa, non si esitò ad attribuirgli come merito l’aver affermato che i giornalisti specializzati sono così stupidi che (logica conseguenza) di un convegno di chirurgia cardiaca è meglio incaricare un cronista di nera o un inviato speciale di ritorno dalla caccia alla balena.
E bisognerà pure decidersi, sull’esempio di quanto si sta facendo nei paesi industrialmente più avanzati, a rinnovare i criteri con cui è trattata l’economia. Non è più possibile procedere nel modo convenzionale, occorre affrontare il problema dei costi e dei benefici, e ragionare in termini di economia ambientale, per capire finalmente l’enorme parte che il collasso ecologico ha avuto nel nostro attuale collasso economico generale. E quindi vedere quanto ci è costata l’industrializzazione di base, divoratrice di capitali e di risorse e produttrice di pochissimi posti di lavoro, quante migliaia di miliardi di debiti ha accollato allo Stato la sbornia autostradale, quante migliaia di miliardi ci è costato il rifiuto di ogni politica preventiva di risanamento fisico del territorio, quante migliaia di miliardi ci è costata la rendita fondiaria che oggi la Corte costituzionale torna a conoscere come legittima.
Per capire finalmente la cosa più importante di tutte: che cioè non c’è progresso civile ed economico senza politica ambientale ed ecologica, e che questa si presenta oggi come una straordinaria occasione per combattere sottosviluppo e disoccupazione.
Tutto questo, naturalmente, se i nostri giornali vorranno davvero contribuire, attraverso una nuova cultura dell’ambiente e del territorio, a fare un’Italia più onesta e più giusta, più europea e meno sfasciata. Se no, le cose andranno sempre peggio, e sarà sempre più inutile abbandonarsi a deplorazioni e registrazioni di fatti compiuti: né si può pensare che le cose migliorino se alla questione ambientale continuerà a essere dedicato mediamente, come capita oggi, meno dell’uno per cento dello spazio disponibile.
L’articolo è uscito sul “Corriere della Sera”, del 20-21 febbraio 1980. Ringraziamo per la gentile concessione l’Archivio Antonio Cederna
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- Antonio Cederna, archeologo, giornalista, urbanista, attivista di associazioni, parlamentare e amministratore pubblico, ha dedicato la propria vita all’impegno per la difesa del patrimonio storico-artistico e paesaggistico del nostro paese. Vissuto tra il 1921 e il 1996, dopo la guerra cominciò a lavorare come archeologo, ma ben presto abbandonò questa carriera per occuparsi interamente della denuncia di tutto ciò mettesse a rischio l’integrità del territorio e dei beni culturali italiani. Le infinite battaglie contro lo sventramento dei quartieri storici delle città, la cementificazione delle coste, il deturpamento e la distruzione di aree archeologiche a favore di nuovi quartieri residenziali, sono state da lui portate avanti con appassionati articoli, interviste e proposte legislative. Famosa e cruciale è la grande battaglia combattuta per la salvaguardia della Via Appia Antica, a cui dedicò oltre 140 articoli contro abusi edilizi ed incuria. (La bio e la foto sono tratte dal sito web del Parco archeologico dell'Appia Antica)
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