La scoperta delle Isole Fær Øer
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La scoperta delle Isole Fær Øer attraverso la lettura di “Isola”, di Siri Jacobsen.
Definizione di “Isola”
Che cos’è la solitudine? Che cos’è la malinconia? Cosa significa “sentirsi soffocare” e “sentirsi liberi”? Domande, a cui è difficile dare risposta. La ruralità opprime, la metropoli rende liberi? La città è snervante, la cornice bucolica rigenera?
L’Italia, nella sua eterogeneità paesaggistica, offre presto una risposta: tra i borghi delle Alpi e degli Appennini e i grandi centri urbani; tra le cascine isolate della pianura Padana e i lussureggianti colli vinicoli, dalle aree marittime più affollate alle isole più distanti: c’è di tutto.
E se si proviene dalle Far Øer? 18 isole, 1396 chilometri quadri, 52 mila abitanti. Nazione costitutiva della Danimarca a metà strada tra la Scozia e Islanda, è il remoto, qui, a fungere da luce e da ombra. Terra di origine vulcanica, le montagne e le scoscese pendenze dominano il mare, sotto un cielo che spesso si sfalda in nebbia tra il verde, perenne, dei paesaggi atlantici del Nord. Una vita, lassù, tra gli sterminati spazi aperti e la porta di casa sempre aperta: ognuno si fida dell’altro.
Arcipelago identitario
La popolazione faroese, di origine prevalentemente vichinga e con tracce celtiche, rappresenta un piccolo pezzo del mosaico identitario scandinavo. Anche qui, come nella parte continentale, la bandiera è simboleggiata dalla tipica croce scandinava e anche qui, gli abitanti, parlano una propria lingua di origine germanica: il faroese, detto anche feringio.
Isolani isolati: non solo perché lontani dalla Scozia 320 chilometri e 450 dall’Islanda, ma anche perché all’interno dell’arcipelago sono solo i due quinti degli abitanti a vivere nella capitale Tórshavn, che conta circa 21 mila abitanti. Il restante, vive in piccoli comuni, se non in case appartate in mezzo al verde.
Siri Ranva Hjelm Jacobsen è una scrittrice danese di origine faroese: classe 1980, è l’autrice di Isola, romanzo edito da Iperborea e vincitore del Premio MARetica nel 2019. Curiosamente, il titolo originale danese è Ø. Quella O barrata, tipica delle lingue scandinave di origine germanica, oltre ad essere un fonema dell’alfabeto, in danese assume il significato di “Isola”.
Lo si trova, per esempio, nell’etimologia della città di Tromsø (nonostante sia questa norvegese, il nome proviene dal danese antico col significato di “Isola di Troms”) e, non a caso, l’etimologia di “Far Øer” potrebbe ricollegarsi, letteralmente, a ciò: in antico norreno (la lingua parlata dai vichinghi), infatti, Fær significava “pecore” e Øer “isole”:tutto al plurale, col significato di “Isole delle Pecore”.
A contatto con la natura
Nome che, per le Far Øer, più azzeccato di così non poteva essere. Ancora oggi, infatti, si contano più pecore che abitanti: circa 80 mila unità al pascolo da una parte, circa 50 mila individui dall’altra. Nel libro, Siri Jacobsen affronta diversi temi: dal lavoro all’emigrazione, dalla dura vita in epoca storica alla nostalgia di casa, il romanzo è un ritratto, autentico e straordinario, delle poco conosciute Isole Far Øer.
Pensando ai nonni che su queste isole nacquero e da qui partirono in cerca di fortuna per la Danimarca, Siri, in un variegato movimento scenografico e correndo lungo un filo, intreccia le vicissitudini dei suoi personaggi, mostrando al lettore tante caratteristiche insite nella cultura faroese e Nord-atlantica. Per Osservatorio Artico, interviene parlando del suo libro e delle Far Øer sociali e culturali odierne.
Questo è il primo romanzo, in Italia, che ci permette di conoscere le Far Øer più storiche: sei la prima con Isola, nel panorama danese prima ed estero poi, a narrare una storia di successo ambientata in questo arcipelago?
«La prima, forse, della mia generazione: prima di me, altri scrittori faroesi hanno pubblicato storie ambientate su queste isole. Potrei dire, invece, che io sono la prima a parlare, da un punto di vista storico, dell’emigrazione dalle Far Øer, in qualità di scrittrice nata e cresciuta in Danimarca».
In questo romanzo, il principale tema riguarda l’emigrazione dalle Far Øer alla Danimarca: era alto, un tempo, il tasso di partenze dalle isole?
«Sì, e anche oggi: la storia che racconto si lega a un panorama, quello faroese, comune. Le persone, infatti, lasciano le Isole per motivi di studio o di lavoro e alcune di loro non ritornano più a casa».
Mi è rimasta impressa, un giorno, la frase di un giovane ragazzo napoletano: “Qui nel Sud Italia, cresciamo con l’idea che, se vogliamo ottenere un qualsiasi successo professionale, dobbiamo lasciare casa”. Pure alle Far Øer è così: anche se, in realtà, negli ultimi anni il trend si è invertito. Un abitante lascia il Paese per vivere l’esperienza di studio o di lavoro all’estero, poi però è facile che scelga di tornare a casa».
La trama di Isola si concentra principalmente sulla storia della dura vita nelle isole degli anni ‘30 del Novecento. Da dov’è partita la narrazione? Un po’ grazie al racconto dei nonni e un po’ grazie a quanto ti hanno riportato i testimoni dell’epoca?
«Questo lavoro nasce dal mio mix di conoscenze, ma in testa non ho informazioni ben precise: alcuni elementi sì, nascono dai racconti dei nonni. Altri li ho scoperti sulle isole. Altri ancora, infine, sono frutto della mia immaginazione. I personaggi della storia degli anni ‘30 sono fittizi e il lavoro è nato, comunque, da una conoscenza da me acquisita da tempo immemore. Non saprei dire, di preciso, quando ho appreso tutte le informazioni storiche».
C’è un passaggio, nel romanzo, dove nonno Fritz va a pescare alle Svalbard, lontano da casa, a Nord. Questo è perché c’erano momenti in cui il pesce scarseggiava attorno alle Far Øer o semplicemente perché, nel mar Glaciale Artico, ci sono tipi di pesce pregiati?
«I pescatori faroesi andavano alle Svalbard e in Groenlandia perché era lì, che potevano pescare: nel mare attorno alle Far Øer navigavano pescherecci con issata la bandiera britannica, specie negli anni ‘20. Quindi i faroesi erano spinti a spostarsi più a Nord e più a Est. Pescavano perlopiù merluzzi, che vendevano poi all’estero, soprattutto in Italia, Spagna e Portogallo».
Nel libro possiamo anche capire, almeno parzialmente, a quali impatti, dalle Far Øer alla Danimarca, si andava incontro dopo il trasferimento definitivo: i faroesi, specie quelli della prima metà del Novecento, trovavano ostacoli e difficoltà nel processo di integrazione con la società danese?
«Penso sia sempre difficile abbandonare le proprie radici e trasferirsi in una nuova terra: in fondo, anche i danesi di origine faroese portano ancora le Far Øer nel cuore.
Nonostante le imposizioni storiche del governo di Copenhagen, queste isole non si sono mai, pienamente, assimilate alla Danimarca. Hanno preservato le loro tradizioni, si parla ancora oggi il faroese e i discendenti nati e cresciuti fuori visitano spesso le isole.
Allora, comunque, i faroesi arrivavano in Danimarca già preparati. Conoscevano il danese attraverso le forzate politiche coloniali di Copenhagen, rendendolo obbligatorio nelle scuole. I faroesi sapevano prevedere, anche da ciò, gli effetti dello spostamento. L’adattamento, inoltre, era piuttosto facile e i danesi non coglievano la differenza regionale tra l’essere faroese e l’essere locale.
Se ciò succedeva, era più per la parlata. Motivo questa, assieme ad altri elementi, di stereotipo. I faroesi venivano dal remoto, erano i “montanari” che “conoscevano ben poco del mondo della civiltà europea”, “mangiavano cibo puzzolente” e “parlavano un danese assai curioso”. Ma in fondo, in Danimarca, tutto ciò era divertente: il faroese parla in modo bizzarro, sì, ma è comunque uno dei nostri.
Le difficoltà maggiori, invece, si legavano più alla nostalgia: mio nonno, per esempio, lasciò le isole Far Øer da giovane, ma non giunse mai veramente in Danimarca. In un certo senso, trascorse l’intera vita pensando al luogo natio. Comunque, bisogna aggiungere anche che la migrazione faroese non è mai stata al centro della propaganda politica, al contrario invece di quanto accade oggi con le nuove migrazioni dai paesi africani e da quelli islamici: i faroesi sono sempre stati pacificamente ignorati».
La lingua faroese è mai stata tutelata dal governo danese o le nuove generazioni che vivono in Danimarca assistono a un totale processo di assimilazione?
«Le Far Øer appartengono al Regno danese ma non sono parte della Nazione danese. Il modo più semplice è dire che le Far Øer sono ormai un’ex colonia di Copenhagen, poiché nel tempo gli è stata data una sua autonomia e un suo autogoverno. Però, al di là di ciò, purtroppo no. In Danimarca non ci sono istituti linguistici volti a promuovere l’insegnamento di questa lingua: la minoranza ne fa solo un uso privato. Esiste, invece, un Movimento sulle isole, attivo negli ultimi 50 anni, che ha come obiettivo quello di rafforzare la coscienza identitaria e di salvaguardare la lingua».
Nelle scuole faroesi si studiano entrambe le lingue, il faroese e il danese?
«Fino al 1938, la lingua scolastica era solo il danese. In seguito, i bambini hanno iniziato a studiare in faroese ma il danese è ancora una lingua obbligatoria. Tutta la popolazione faroese parla danese ma l’atteggiamento verso il suo uso sta cambiando. Vi riporto un curioso esempio. Un tempo, il danese era accettato. Poi, col passare dei decenni, è cambiata la relazione.
Ci sono casi nei bar di Tórshavn in cui, a una richiesta in danese, i baristi possono fingere di non capire, utilizzando l’inglese: culturalmente, questo non è più territorio danese. Ciò accade, soprattutto, quando si percepisce un atteggiamento di superiorità da parte dei visitatori danesi. Il messaggio che passa è questo: “Conosciamo, sì, la tua lingua, ma dato che ti trovi da noi, impari almeno a dire “per favore” e “grazie” in faroese”. Personalmente sono d’accordo, anche quando mi ritrovo a usare il mio pessimo faroese: una perdita di linguaggio corrisponde ad una perdita di comunità e di storia».
Verso la fine del libro, appare un’accesa discussione tra tifosi: secondo il nonno, il plurititolato club HB Thórshavn “riceve sempre favori arbitrali, motivo per cui il Suduroy non ha mai vinto il campionato”. Anche qui, come in Italia, si è diffusa una vera e propria febbre del calcio favorendo diatribe e discussioni? Ci sono, inoltre, altri sport molto popolari?
«Oh, il calcio è seguitissimo sì. Persino nel villaggio dei miei familiari, di 1351 abitanti, c’è il proprio piccolo stadio. Ma lo sport nazionale, qui, che riesce a lanciare i suoi campioni (al contrario del calcio) è il canottaggio. Questa disciplina non è solo sport: è cultura e tradizione.
Vi racconto questa: durante un’estate passata sulle isole, un mio amico venne a trovarmi dalla Danimarca. Una sera, eravamo seduti in un bar di Tórshavn con vista sull’Atlantico. Guardando fuori dalla finestra, rimase meravigliato. Dall’oceano? Macché! Da un’enorme e pesante barca, di quelle che richiedono grande forza e coordinazione, che viaggiava in acqua a ritmi altissimi: a bordo c’erano cinque giovani e minute ragazzine, ad occhio in età pre adolescenziale, che andavano a velocità massima. Questo testimonia quanto, alle Far Øer, il canottaggio sia una disciplina ben radicata nella popolazione, sin dalla tenera età».
Ci sono rivalità campanilistiche tra un villaggio e l’altro e/o tra un’isola e l’altra?
«Certamente! Sia tra i paesi che tra le isole. La famiglia dei miei nonni vive su un’isola piuttosto remota rispetto al centro vero e proprio dell’arcipelago. Se, per i danesi, i faroesi sono i “montanari”, lo stesso accade per chi proviene dalle isole più distanti dalla capitale. Spesso, ho sentito dire che, comparato ad altri luoghi, le isole più remote contengono le persone più rozze dalla testa calda: tutte menzogne! D’altra parte, però, sono anche considerati i migliori ballerini folkloristici: su questo, beh… potrebbe essere vero».
Nel tuo libro si entra nella storia faroese: sia nella Seconda Guerra Mondiale sia nella Guerra Fredda. I britannici si stabilirono di stanza nelle strategiche Far Øer, onde evitare l’arrivo dei nazisti che durante la guerra occupavano la Danimarca. Ci furono mai scontri tra gli Alleati e le forze dell’Asse? Fu versato anche qui, tanto sangue?
«Sulle isole ci furono vittime, sì, ma non molte. Nell’oceano invece, la storia cambia: i pescatori faroesi divennero bersaglio dei siluri aerei nazisti. Molti di loro, infatti, erano costretti a navigare in acque minate dai tedeschi: dovevano rifornire di pesce il Regno Unito. Furono circa 4000, gli uomini che navigarono tra le Isole Far Øer e la Gran Bretagna e allora il numero di abitanti delle Isole era inferiore a 30.000 persone in totale. Statisticamente, quindi, le Isole Far Øer sono tra i Paesi che hanno subito la più alta perdita di vite umane in relazione al numero di abitanti.
Ci furono tra i faroesi, poi, momenti di resistenza ai nazisti. Alcuni marinai che lavoravano in mare per conto della Danimarca si rifiutarono di tornare nei porti danesi quando tutte le navi furono richiamate a casa durante l’occupazione tedesca, navigando nel frattempo sotto la protezione delle navi Liberty statunitensi. C’è un personaggio, in Isola, ripreso proprio dalla storia di un mio prozio marinaio, il fratello di nonno: anche lui, scelse di non tornare in Danimarca. Ebbe un grande coraggio!».
Nel libro, citi la soap opera Beautiful, serie che in Danimarca cambia nome, Glamour: l’influenza statunitense è arrivata nella stessa maniera di Danimarca ed Europa continentale o ha impiegato maggiore tempo sulle isole, data la loro lontananza?
«L’influenza americana è ovunque, ma ci sono differenze tra la Danimarca e le Far Øer. Sulle Isole è l’influenza britannica ad aver maggiormente influenzato la vita e la cultura locale, data l’occupazione in tempi guerra. Una grande impronta americana lasciata alle Far Øer riguarda la musica country, molto più che in Danimarca e in Europa, e non saprei dire come mai proprio questo genere.
Poi, naturalmente, i canali d’influenza passano soprattutto dalla Danimarca: tutto ciò che gravita attorno a Copenhagen, danese o estero, diventa poi un facile elemento di influsso anche verso Tórshavn. Viceversa, invece, non ci sono elementi faroesi che arrivano in Danimarca, di nessun tipo».
Ci sono università sulle isole o gli studenti sono obbligati ad andare altrove, a Copenhagen, a Londra o in altri importanti hub europei?
«L’università delle Isole Far Øer è stata fondata nel 1965, ma è ancora piuttosto comune per i giovani andare a studiare all’estero. Si possono trovare studenti faroesi in ogni angolo d’Europa. Del resto, sono isole poco popolate, composte da piccole comunità sparse sull’arcipelago e come ogni piccola realtà, tutti conoscono tutti. Non è così strano, dunque, che i giovani vogliano uscire dalle isole, trascorrere anni della propria esistenza all’estero e scoprire un intero mondo fuori: questo, comunque, vale anche per la Danimarca.
In fondo, è una piccola Nazione, se comparata alla ben più grande e popolosa Italia e anch’io, da adolescente, sognavo di andare alla conquista del mondo, cosa che in realtà dentro di me c’è ancora».
Hai mai conosciuto altra gente in Danimarca, che come te ha origini faroesi, o anche groenlandesi, o è più difficile trovarne, visto anche il numero esiguo di abitanti di queste due Nazioni Costitutive appartenenti al Regno danese?
«A Copenhagen sì, è più facile conoscere faroesi e groenlandesi, anche perché qui – soprattutto i faroesi – si incontrano e fanno gruppo. Nel mio caso, ho vissuto a Copenhagen per quasi tutta la mia vita, e probabilmente avrei avuto molte più difficoltà a trovare amici faroesi se fossi cresciuta altrove in Danimarca: non ne ho mai conosciuta, invece, durante la fase di crescita.
Sicuramente, avrei legato particolarmente se solo avessi trovato, a scuola o fuori, persone di origini faroesi come me: è piuttosto raro che accada nella vita di tutti i giorni».
Grazie per l’intervento! Faresti un saluto ai nostri lettori in faroese?
«Grazie a voi e ai lettori. Certo. Farvæl! Arrivederci!»
Nicola Pisetta
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