Salvare il Mediterraneo è ancora possibile. Dialogo con Giuseppe Onufrio
Si è conclusa la spedizione scientifica di Greenpeace Italia “C’è di mezzo il mare”. Il Direttore dell’associazione ambientalista: “per proteggere il Mare Nostrum e noi stessi dobbiamo al mare un respiro su due”
«Gli effetti del cambiamento climatico sono sempre più visibili sulla salute degli oceani. L’aumento delle temperature del Mediterraneo è evidente e registriamo sempre più episodi di sofferenza della biodiversità che lo abita». Sono le parole di Giuseppe Onufrio, fisico e direttore generale di Greenpeace Italia, al termine della spedizione scientifica “C’è di mezzo il mare”, condotta dall’associazione ambientalista insieme ai ricercatori dell’Istituto per lo studio degli impatti Antropici e Sostenibilità in ambiente marino (IAS) del Consiglio Nazionale delle Ricerche e dell’associazione Oceanomare Delphis, specializzata nel monitoraggio e nella conservazione dei cetacei. Un viaggio di cinque settimane dalla Corsica alla Campania, passando per l’Arcipelago Toscano e le Isole Pontine, attraverso aree di elevato valore biologico ed ecologico per documentare lo stato di salute e le minacce del Mediterraneo e raccogliere dati sulla sua biodiversità.
«Ci siamo occupati della salute del mare da diverse angolature. Un respiro su due lo dobbiamo al mare e la sua difesa è fondamentale», dice Onufrio. Come riuscire però per metterla in atto?
Aiutare gli ecosistemi marini a resistere al clima che cambia
«La crisi climatica, con le sue conseguenze sugli ecosistemi terrestri e marini, è legata alle attività umane. Questo vuol dire che abbiamo gli strumenti per combatterla», spiega il direttore. L’ultimo, in termini di politiche ambientali internazionali, è il Trattato globale sulla protezione degli oceani.
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Dopo l’accordo raggiunto lo scorso marzo per la protezione di quei tratti di mare che superano i confini nazionali, “l’alto mare”, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il Trattato mentre la spedizione di Greenpeace era in corso. «L’accordo ci chiede di proteggere il 30% delle aree marine, non solo quelle vicino alla costa. Ora che il Trattato è stato approvato è il momento di applicarlo. L’Italia deve ratificarlo e incorporarlo nella propria politica di tutela ambientale» dice Onufrio.
L’obiettivo è tutelare il 30% degli oceani entro il 2030 attraverso la creazione di una rete di aree protette, interdette alle attività antropiche. Un elemento chiave per aiutare gli ecosistemi marini a resistere al clima che cambia.
«Osservando lo stato di salute del mare e della sua biodiversità, abbiamo visto notevoli differenze fra le aree protette e le zone di mare non tutelate. Crearne di nuove aumenta la resilienza degli ecosistemi marini e fa parte delle strategie di adattamento al cambiamento climatico che possiamo mettere in atto». Per chiedere al Governo di mettere in pratica il Trattato e istituire una rete di aree marine protette che copra il 30% del nostro mare, Greenpeace ha lanciato una petizione rivolta al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e al Ministero per la Protezione Civile e le Politiche del mare.
Urge una transizione veloce
Se è vero però, come ricorda Onufrio, che una natura protetta resiste meglio agli shock inevitabili della crisi climatica, è altrettanto vero che senza l’abbattimento delle emissioni di gas serra ogni azione sarà inutile. «Possiamo provare a proteggere la natura in tutti i modi, ma c’è un limite alla capacità di adattamento. Se non tagliamo le emissioni di gas serra legate ad agricoltura e allevamenti intensivi e non abbandoniamo l’uso dei combustibili fossili la situazione diventerà ingestibile». A quel punto, nessun adattamento sarà possibile.
L’ultimo rapporto del progetto “Mare Caldo”, realizzato dall’associazione ambientalista in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita (DISTAV) dell’Università di Genova e attivo in dieci Aree Marine Protette italiane, fotografa l’urgenza di un cambio di rotta generale.
Misurando la temperatura della colonna d’acqua in alcune aree del Mediterraneo, nell’estate del 2022 i ricercatori hanno registrato anomalie termiche locali di circa 2°C rispetto agli anni precedenti. Una situazione che impone un cambiamento del sistema energetico e produttivo. «Il problema è che lo stiamo facendo troppo lentamente e questo ci espone a rischi», dice Onufrio.
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Cittadini attenti, politica sorda
Mentre una maggiore attenzione verso le tematiche ambientali si sta diffondendo fra la popolazione, dovuta al fatto che diverse parti del Paese stanno già facendo i conti con i fenomeni estremi legati al cambiamento climatico, debole continua a essere la risposta da parte della politica. «Abbiamo una classe dirigente che non vuole guardare la realtà della crisi climatica. Indipendentemente dai colori politici, si sta facendo troppo poco e la tendenza è quella di mantenere la situazione attuale:
«se volessimo fare sul serio, per la transizione dovremmo immettere nel nostro sistema energetico circa dieci gigawatt l’anno di rinnovabili. Lo scorso anno ci siamo fermati a tre, quest’anno se ne prevedono cinque. Si sta rallentando un cambiamento nel quale invece dovremmo correre».
Associazioni e istituti di ricerca intanto continuano la loro opera per la tutela degli ambienti marini e non solo. «È in gioco la sopravvivenza dell’umanità come la conosciamo e divulgare temi come la tutela del mare, basandoci su dati scientifici, è fondamentale. Abbiamo bisogno però di qualcuno che ci voglia ascoltare e, a livello politico, purtroppo, questo ancora non è successo», conclude Onufrio.
Saperenetwork è...
- Naturalista rapito dal fascino per il mondo naturale, sommerso e terrestre, e dei suoi abitanti, spera un giorno di poterli raccontare. Dopo la Laurea in Scienze della Natura presso l’Università di Roma “La Sapienza” va in Mozambico per un progetto di conservazione della biodiversità dell’Africa meridionale. Attualmente collabora come freelance con alcune testate come Le Scienze, Mind e l’Huffington Post Italia, alla ricerca di storie di ambiente, biodiversità e popoli da raccontare
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