A Cooler Climate, la ricerca della Kabul perduta di James Ivory e di Bābur

La cerimonia di apertura della Festa del Cinema di Roma con James Ivory

Cosa rimane dei tanti mondi scomparsi se non il loro ricordo? A Cooler climate arriva durante la prima giornata della 17esima edizione della Festa del cinema di Roma e illumina anche grazie alla presenza in città di James Ivory, insignito del Premio alla Carriera durante la giornata inaugurale della rassegna capitolina. Il pluripremiato autore statunitense dopo otto candidature agli Oscar come regista è riuscito a strappare all’Academy una statuetta come sceneggiatore di “Chiamami col tuo nome”, diretto da Luca Guadagnino e adattato dal romanzo omonimo di André Aciman, alla veneranda età di 89 anni.

 

James Ivory alla Festa del Cinema di Roma 2022 (Foto: Emanuele Manco, Fondazione Cinema per Roma)

 

Ora che di anni Ivory ne ha 94, devono essere tanti i mondi che ha visto scomparire, da quelli geografici a quelli sociali fino a quelli sentimentali. Complice una scatola piena di pellicole dimenticate per 60 anni e un regista inglese di documentari, Giles Gardner, in cerca di una storia sull’Afghanistan, più di uno di quei mondi ha trovato il modo di essere riesumato e ricordato ancora a lungo.

In un gioco di specchi e di schermi, di parole e immagini, di filmati e mappe, i due registi ripercorrono due vite in parallelo.

Quella di Ivory, dall’Oregon alla California, in cerca della propria identità, professionale e sessuale, e la vita di Ẓahīr al-Dīn Muḥammad, discendente di Tamerlano e fondatore della dinastia Moghul in India, celebre anche in Occidente come Bābur grazie alla sua autobiografia, il Bāburnāme ovvero Il libro di Bābur.

 

Un fotogramma del documentario “A cooler Climate”

A Kabul, seguendo un libro

È grazie al diario di Bābur che Ivory, poco più che trentenne, in Asia a caccia di storie da raccontare, conosce le delizie di Kabul prima dell’occupazione sovietica, dei talebani e dell’occupazione statunitense, città senza monumenti dove il clima è soave e la natura rigogliosa. È dall’attuale capitale dell’Afghanistan che era partito Bābur agli inizi del Cinquecento per conquistare l’Hindustan, dove per tutta la vita, per ricordare a sé stesso le terre che si era lasciato alle spalle, continuò a dar vita a giardini che ricreassero quelli di Kabul, dove il clima era più fresco e sognava di tornare e dove solo da morto potrà tornare.

Nel Bāgh-e Bābur, il giardino di Bābur, sulla sua tomba, un’iscrizione in persiano testimonia ancora oggi il suo amore per quella terra: «Se c’è un paradiso in terra, è questo, è questo, è questo!».

Non è un caso, d’altronde, che insieme al diario del conquistatore moghul, c’è un altro libro a far compagnia al giovane Ivory in Afghanistan: La strada di Swann, primo volume de Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, anche lui impegnato come è a conservare gelosamente le sue madeleine (che per Bābur, 400 anni prima era stato il gusto di un melone, simile a quelli lasciati a Kabul).

Un paradiso divenuto inferno

Nel suo itinerario al contrario, dall’India all’Afganistan, ha ricordato il regista in conferenza stampa «Ero andato via da Delhi, nella primavera del 1960, perché era caldissima e cercavo una località più fresca. A Kabul il clima era perfetto, ma non c’erano monumenti da filmare, non c’erano i palazzi, i minareti, le fortezze che avevo lasciato in India, ma c’era la gente e la loro vita che in quel periodo stava subendo veloci trasformazioni sociali. Giravo senza una meta e riprendevo tutto quello mi piaceva, che mi capitava di fronte».

 

Una immagine da “A cooler climate”

 

Materiale che solo oggi si è scoperto in tutta la sua preziosità, testimonianza di una città allora paradisiaca e oggi invece sinonimo di inferno. Come preziose sono le immagini dei Buddha di Bamiyan, visitati quell’anno da Ivory dopo un lungo e avventuroso viaggio attraverso le strade costruite dagli americani:

«In Afghanistan in quegli anni, gli americani costruivano strade, i russi edificavano una diga per produrre energia elettrica», spiega infatti la voce narrante del documentario.

Alte una 38 metri (risalente a 1800 anni fa), l’altra 53 metri (risalante a 1500 anni fa), le due statue sono state distrutte per motivi ideologici con carri armati, esplosivi e lanciarazzi dai talebani il 12 marzo 2001. Di nuovo, un mondo scomparso, che il film ha il merito in qualche modo di far tornare in vita il tempo di qualche fotogramma, insieme a contadini che raccolgono cereali e muratori che creano mattoni dal fango.

 

La locandina del film

 

A Cooler Climate è un gioiello, anche grazie alle musiche di Alexandre Desplat, mai esagerate e urlate come in molto cinema odierno, dalle mille sfaccettature. Un viaggio intorno al mondo e all’interno dei mondi interiori, che non mancherà di incantare quanti vorranno intraprenderlo accompagnati dalla macchina da presa gentile e appassionata di questo gigante della cinematografia.

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Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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