Ad Alcarràs, alla ricerca delle pesche perdute

Alcarràs di Carla Simòn, vincitore dell'Orso d'Oro a Berlino

Pannelli solari contro pesche, investimenti nelle energie rinnovabili a fronte di un sempre maggiore consumo di suolo agricolo: lo scontro potrebbe sembrare troppo trenchant posto come un aut aut, eppure Alcarràs, vincitore della 72esima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, ne mostra tutto il dramma.

 

 

Ha i tratti della distopia il film spagnolo diretto da Carla Simón: come è possibile che l’agricoltura tradizionale, quella condotta da millenni dall’essere umano, sia diventata non sostenibile? Alla regista la risposta interessa poco, preferendo invece, nei 120 minuti del lungometraggio, mettere in scena in tutte le sue sfaccettature la tragedia di una famiglia da sempre dedita alla coltivazione delle pesche, in un piccolo villaggio della Catalogna, Alcarràs appunto, a duecento chilometri da Barcellona. I Solé da tre generazioni dedicano tutti i propri sforzi a una terra che non è la loro, ma che hanno in gestione in fede alla parola data dai legittimi proprietari del fondo agricolo, i Pinyol.

 

Omaggio ai contadini

I giovani latifondisti, però, conoscono solo il valore del contratto scritto: un contratto che nonno Rogelio non ha. Joaquim Pinyol, dalla sua, ha altri piani per il frutteto, ormai non più redditizio come un tempo. Le grandi aziende, infatti, comprano la terra per coltivarla in modo estensivo e la grande distribuzione compra la frutta a prezzi sempre più bassi. I peschi faranno posto ai pannelli fotovoltaici, mercato in crescita, sovvenzionato dalla Comunità Europa (secondo i dati registrati dall’Unione fotovoltaica spagnola, la Unef, nel 2021 sono stati installati in Spagna 1203 MW di nuova potenza fotovoltaica in impianti di autoconsumo: un aumento del 101,84% rispetto al 2020).

 

La regista e sceneggiatrice spagnola Carla Simón
La regista e sceneggiatrice spagnola Carla Simón con “Alcarràs” ha vinto l’Orso d’Oro alla settantaduesima berlinale (Foto: Harald Krichel/Wikipedia)

 

«I modelli stanno cambiando, un vecchio mondo sta finendo, e il nostro film vuole essere un omaggio nostalgico alle ultime famiglie di contadini che ancora resistono», ha proseguito la regista.

Simón confeziona così un gioiello corale, dall’animo neorealista, in cui una famiglia, ancorata a tradizioni secolari sostenute dalle leggi naturali, dove ognuno ha il suo posto e ogni età la sua funzione, viene coinvolta nel profondo dei legami in quel cambiamento dei costumi e del sistema di produzione: ciascun Solé cerca il proprio posto nel mondo in un momento in cui la famiglia è sul punto di perdere la propria identità collettiva.

«Questa è una storia di appartenenza a una terra, a un luogo, ma è anche un dramma sull’eterna tensione generazionale, sul doloroso superamento delle antiche tradizioni e sull’importanza di rimanere uniti in tempi di crisi», ha chiosato la Simón, che con il suo primo lungometraggio del 2017, Estate 1993, ha vinto il premio come migliore opera prima alla Berlinale, dove ha ottenuto anche il Gran premio della giuria nella sezione Generation Kplus.

 

        Guarda il trailer di Alcarràs

 

Resta l’amarezza di uno scontro tra modelli – culturali prima ancora che economici – che difficilmente potrà avere un esito felice per i piccoli coltivatori, spagnoli come italiani (anche se la legislazione italiana limita la possibilità di installare impianti fotovoltaici a terra su terreni agricoli).

Verso l’agricoltura ecologica

Dialoghi asciutti, inquadrature di grande bellezza a omaggiare la fertile pianura attraversata dal fiume Segre, un cast eccellente, di attori e attrici non professionisti («Volevo che questo film venisse interpretato da contadini che la terra la lavorano, ci sono realmente legati e possono veramente capire cosa significhi perderla», ha spiegato la cineasta») concorrono al fascino malinconico di un film che nella sincera urgenza della sua realizzazione riesce a raccontare un pezzo di realtà come il migliore dei documentari, conducendo però il pubblico all’interno dei sentimenti, di amore e di paura, di sconforto e di tenerezza (quanta grazia autentica nel legame “terragno” tra la piccola Iris e il bracciante africano Boubou) che attanagliano diverse generazioni di uomini e donne al cospetto del futuro più incerto. Si direbbe un baratro, ben descritto dalla normalità della scena finale, malgrado le parole della stessa regista:

«Nonostante i cattivi auspici, spero che l’agricoltura ecologica possa diventare un futuro luminoso per coloro che vogliono continuare a coltivare la terra in piccoli gruppi».

E l’auspicio non può che essere condiviso. Alcarràs è al cinema dal 26 maggio, distribuito da I Wonders Pictures.

 

 

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Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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