Afrin nel mondo sommerso. Storia di una fuga dalla crisi climatica
Arriva nelle sale italiane il documentario del regista e fotoreporter Angelos Rallis. Patrocinato da Amnesty International Italia, Greenpeace, Wwf, Legambiente e Save the Children, è la storia vera di una ragazza bengalese costretta ad abbandonare la sua casa alluvionata
Il suo nome, in sanscrito, vuol dire “figlio di Brahma”. Lo chiamano “mare”, invece, le popolazioni che abitano le sue sponde, dall’Himalaya fino in Cina, India e Bangladesh, prima di gettarsi nel Gange e sfociare nel Golfo del Bengala. A tratti l’alveo del Brahmaputra è tanto ampio da impedire la vista della riva opposta. Numerose comunità abitano le isole di fango che si formano periodicamente lungo il suo corso. Sopravvivono a pelo d’acqua in condizioni di estrema povertà, prima che una nuova inondazione stagionale si porti via tutto. L’eterno ritorno delle piogge monsoniche è accolto con rassegnazione dagli abitanti del Brahmaputra, abituati a convivere con le sue acque impietose e mettersi in salvo.
Arriva in alcune sale italiane Afrin nel mondo sommerso, il pluripremiato documentario del regista e fotoreporter Angelos Rallis.
Patrocinato da Amnesty International Italia, Greenpeace, Wwf, Legambiente e Save the Children, racconta la storia vera di una ragazza bengalese di dodici anni, costretta ad abbandonare la propria casa dopo le violente alluvioni che hanno sommerso la sua isola di fango, nel bel mezzo del fiume Brahmaputra.
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Afrin nel mondo sommerso
Afrin, dodici anni, vive da sola su una di queste remote isole di fango. La terra ferma è a ore di navigazione: l’acqua circonda e sommerge un paesaggio desolato. Afrin ha imparato a remare e riconoscere l’arrivo del monsone dal lamento degli sciacalli o dalla consistenza del fango. Rallis l’ha seguita con la sua cinepresa per cinque anni, documentando la sua quotidianità dalle violente inondazioni, alle notti senza sogni, ai tentativi di costruire un rifugio sicuro, accumulando canne di bambù e lamiere. Oltre quattrocento ore di riprese, condensate in novantadue minuti, accompagnano lo spettatore in un viaggio iniziatico doloroso, che vede Afrin costretta a trarsi in salvo, abbandonare la sua casa sommersa e raggiungere la capitale.
Un documentario coinvolgente
Afrin nel mondo sommerso spezza i confini del linguaggio documentaristico e consegna al pubblico un invito disperato a non voltarsi dall’altra parte. I pochi dialoghi, affidati a una sceneggiatura dimessa rispetto alla forza prorompente delle immagini, si succedono in una narrazione cosparsa di ellissi e omissioni. Nei primi fotogrammi, l’obiettivo del regista segue letteralmente la protagonista. La telecamera viene sferzata dalla pioggia e dal vento, quasi non mantiene il fuoco. Il fragore dell’alluvione si fa spazio, domina la scena distruggendo qualsiasi resistenza nello spettatore al pari dell’acqua che trascina via ogni cosa. Giunta a Dacca, Afrin raccoglie e brucia rifiuti per pochi spicci. La città la inghiotte, con rumori laceranti e sconosciuti. A volte si tappa le orecchie e le sembra di risentire ovattata la voce del Brahmaputra, di ritrovarsi ancora sotto le sue acque.
Una favola feroce ma piena di speranza
Quella di Afrin, si legge in una nota di regia, è «la toccante allegoria di milioni di giovani nelle sue stesse condizioni»: il Bangladesh è il settimo paese al mondo più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Una favola feroce che non preclude però un finale di speranza. In occasione della Planet Week di Torino, il regista ha condiviso l’urgenza di raccontare la vita di milioni di migranti climatici, che come Afrin sopravvivono invisibili agli occhi del mondo. «Volevo parlare di giustizia climatica – ha spigato al pubblico in sala – Perché questo pianeta non ci appartiene. Forse è davvero giunto il momento di capovolgere la prospettiva».
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Saperenetwork è...
- È nata in una terra stretta tra due mari, e i venti che vi soffiano l’hanno sempre portata lontano. Ama vivere in posti diversi ma è in viaggio che si sente davvero a casa. Giornalista, una laurea in letterature comparate, scrive di libri, persone, crisi climatica e come affrontarla. A volte le capita di perdersi, soprattutto tra le pagine di un romanzo. A Torino, dove vive, ha insegnato italiano a donne migranti e lavorato a progetti di cooperazione in ambito accademico con i paesi dell’America Latina.