Alla Berlinale 2024 ha vinto l’Africa

Mati Diop (seconda da sinistra) con le produttrici Judith Lou Lévy e Eve Robin e Fabacary Assymby Coly (Foto: Wikipedia)

Ha vinto nonostante i due favoriti fossero il conterraneo Bruno Dumont e il sudcoreano Hong Sangsoo, la regista francese Mati Diop con Dahomey, documentario la colonizzazione viene raccontata attraverso la storia delle opere d’arte restituite al Benin solo nel 2021 dopo essere state rubate dai colonizzatori francesi nel 1892, all’epoca in cui il paese dell’Africa occidentale veniva chiamato Regno del Dahomey. Di padre senegalese, allieva di Claire Denis, Diop dopo Atlantique, grand prix della giuria a Cannes nel 2019, torna diretta alle radici africane con un film che è un indagine e un manifesto politico sull’identità e la possibilità di ridefinizione di una nazione e di un intero continente.

 

Pepe, storia di animali ed ecosistemi defraudati

Viene dall’Africa anche l’ippopotamo protagonista di Pepe di Nelson Carlos De Los Santos Arias, premiato come Orso d’argento alla miglior regia.

Un racconto che sfuma nella leggenda, nel realismo magico, lo viviamo in prima persona dalla voce dell’animale, ma parte da una storia vera.

La storia di Pablo Escobar, “plata o plomo”, che negli anni ’80, re indisturbato del traffico mondiale di stupefacenti e appassionato di animali esotici, fece trasportare alcuni ippopotami in Colombia, nel suo zoo personale creato all’interno dell’Hacienda Napoles. Dopo la morte di Escobar, nel 1993, gli ippopotami furono liberati e fuggirono, diffondendosi rapidamente nel bacino del fiume Magdalena, dove, in quanto specie aliena, finirono per stravolgere l’ecosistema dei luoghi. Pepe è davvero esistito: è così che si chiamava uno degli ippopotami, che aggirandosi liberamente lungo il corso del fiume spaventò gli abitanti della zona e per questo fu abbattuto dalle forze dell’ordine.

 

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Due storie, quella di Pepe e quella raccontata in Dahomey, che raccontano la diaspora forzata, il saccheggio e l’espropriazione operata dal colonialismo sulla natura, sull’arte e sull’identità.

Questa Berlinale, l’ultima diretta da Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek, sembra essersi presa carico di mettere in luce punti di vista e modalità di racconto altre, non convenzionali, che travalicano le gabbie dell’abitudine.

Così come è accaduto con il ‘”Documentary Film Award” a No Other Land, firmato da un collettivo di artisti e attivisti palestinesi e israeliani, che racconta le lotte di un villaggio della Cisgiordania contro i coloni israeliani. La giuria, presieduta da Lupita Nyong’o e composta da Jasmine Trinca, Brady Corbet (Usa), la regista Ann Hui (Hong Kong, Cina), il regista Christian Petzold (Germania), il regista Albert Serra (Spagna) e la scrittrice Oksana Zabuzhko (Ucraina), ha dimostrato di avere coraggio, nonostante le polemiche.

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Valentina Gentile
Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.

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