L’angelo dei muri e le nostre carceri interiori
L’ultimo film di Lorenzo Bianchini, thriller domestico con sfumature horror, è soprattutto un dramma intimo, con uno straordinario e inquietante Pierre Richard al centro della scena. Una co-produzione Tucker Film, Rai Cinema e MyMovies
Ciò che forse colpisce di più di Lorenzo Bianchini è il modo di far scivolare la macchina da presa di fianco ai personaggi: in avanti, con brevi pause e piccoli movimenti laterali. In “L’angelo dei muri”, presentato in anteprima mondiale al 39° Torino Film Festival e nelle sale dal 9 giugno, la macchina non è mai scossa dall’evoluzione cupa, perturbante della storia. I lunghi piani sequenza, le carrellate, i primi piani, tutto concorre al raggiungimento di una falda sotterranea, all’acquisizione di una grazia nascosta, fatta di fantasmi e di tormenti.
Non stupisce, vista la natura altra dell’udinese Bianchini, regista indipendente, fieramente legato al suo territorio tanto da farne un campo d’azione privilegiato, segnato dal ricordo al dialetto, alla genuinità di una lingua che afferra l’indicibile, che fissa i contorni di un mondo che è universale nella sua vicinanza, che fa della territorialità un osservatorio particolare.
Anche stavolta il Friuli è al centro di un percorso minimo, in cui i dettagli – svelati in nome di una poetica del sottrarre, già mostrata in Occhi, 2010 – illuminano zone dell’immaginario colonizzate dalla cronaca, dove i drammi della solitudine aprono squarci inattesi, riattivando i nostri traumi.
In quello che per Bianchini è l’esordio nel mainstream (una co-produzione fra la Tucker Film, Rai Cinema e MyMovies), Trieste diviene emblema dello sradicamento, un luogo che è ancora simbolo della marginalità, del vivere spiantati: tra le culture, tra le epoche, tra le classi. L’anziano Pietro (la star della comicità francese Pierre Richard, qui impiegato fuori ruolo, per contrasto) vive da solo in un appartamento fatiscente, in una città che respinge la sua povertà, il suo naso pronunciato, la sua capigliatura scomposta. Riceve un’ordinanza di sfratto ma escogita un sistema per non abbandonare la casa, per continuare ad abitarla di nascosto, fantasma in vita come è sempre stato. Costruisce un tramezzo in fondo al lungo corridoio, e attende, tra scricchiolii, sibili e un respiro pesante, che inquieta. Questo è l’osservatorio di Pietro, il cuore di un appartamento che non è più suo, e colpisce la capacità di Bianchini di costruire un gioco di luoghi chiusi (un tramezzo che è dentro una casa, che è dentro un condominio, che è dentro una città), una sorta di matrioska con al centro la testa del protagonista, gonfia del senso della morte.
Le nuove inquiline, una mamma e la sua bambina armate di disperazione, diventano per lui uno spettacolo ‘rubato’, un’evasione che sa di polvere e inganno, di decadenza e smarrimento.
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«Il carcere è dell’uomo; direi anzi che è nell’uomo», faceva dire Leonardo Sciascia all’Abate Vella de Il consiglio d’Egitto (1963), e la prigione di Pietro coincide con una casa che – dal periodo pandemico in poi – è divenuta fulcro delle riflessioni artistiche, un ambiente angusto e ostile, che invece che accogliere rigetta, mastica e sputa. Bianchini ne mostra gli interni gotici, il mobilio antico, le chincaglierie, e lo fa attraverso memorabili piani-sequenza, come quello che parte dal pertugio e attraversa tutto l’appartamento, con la macchina da presa che ancora una volta esplora, costeggia il corridoio di cui il regista assorbe i cliché rappresentativi, valorizzandone il carattere produttivo.
Le suggestioni si moltiplicano, da Suspiria di Dario Argento (1977) a La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati (1976), regista non lontano dalla concezione del mystery di Bianchini, il quale declina il genere entro contesti noti, che giocano con la psicologia e il soprannaturale per condurre al disvelamento dell’invisibile: è meglio resistere o sparire?
Sotto la patina del thriller contaminatosi con l’horror, L’angelo dei muri è dunque un dramma intimo, epocale, con un protagonista che interroga senza parlare, che con lo sguardo immagina, scruta, incrina la superficie della realtà. Non è un caso che la fotografia di Peter Zeitlinger, collaboratore di Werner Herzog, ne sottolinei gli occhi, al pari di quelli della piccola Sanya (Gioia Heinz) che sta diventando cieca e dunque afferra il buio, ne tocca il fondo. Per poi condurre all’epifania finale.
Saperenetwork è...
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Ginevra Amadio si è laureata con lode in Scienze Umanistiche presso l’Università Lumsa di Roma con tesi in letteratura italiana contemporanea dal titolo Raccontare il terrorismo: “Il mannello di Natascia” di Vasco Pratolini. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e
violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di letteratura otto- novecentesca, cinema e rapporto tra le arti. Sue recensioni sono apparse in Oblio (Osservatorio bibliografico della letteratura otto-novecentesca) e sulla rivista del Premio Giovanni Comisso. Per Treccani.it – Lingua Italiana ha pubblicato un contributo dal titolo Quarant’anni fa, anni di piombo, sulle derive linguistico-ideologiche che segnano l’immaginario dei Settanta.
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