Le otto montagne, storia d’amicizia e natura
Dal romanzo omonimo di Paolo Cognetti, Premio Strega nel 2017, il film diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, con Luca Marinelli e Alessandro Borghi, arriva in sala dopo essere stato presentato in anteprima a Cannes 2022, dove ha vinto il Premio della Giuria
Non era scontato che un film fatto di silenzi e tempi dilatati come Le otto montagne riscuotesse successo al botteghino. L’adattamento del romanzo omonimo di Paolo Cognetti, invece, si è attestato al terzo posto in italia nella top ten dei film più visti durante le feste, dopo Avatar – La via dell’acqua diretto da James Cameron e la commedia di Aldo, Giovanni e Giacomo Il grande giorno. Merito del successo del libro (uscito per Einaudi nel 2016 e Premio Strega l’anno seguente), tradotto in oltre 35 lingue, e merito del passaparola di un pubblico affascinato – forse – dal quel sentimento di grandiosità e insignificanza insieme che si conosce in vetta e che Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, i due registi belgi a cui si deve la trasposizione cinematografica del bestseller, hanno saputo rappresentare così bene.
«La montagna è onesta e impietosa, ti costringe a misurarti con te stesso, a chiederti perché senti questa spinta ad arrivare in cima. Non ce n’è ragione, eppure lo facciamo. Solo per poi tornare indietro, stupiti», si legge non a caso nelle note di regia.
Premiato a Cannes, nel 2022, con il Premio della Giuria (ex aequo con EO del polacco Jerzy Skolimowski), Le otto montagne parla di monti e di amicizia, del rapporto dell’essere umano con sé stesso e con il mondo che lo circonda, parla d’amore e parla di morte. «Volevamo un film epico raccontato da piccoli gesti – hanno detto i due registi – Un’ode alla fragilità e alla forza di ogni singolo essere vivente, che sia uomo, animale, pianta o montagna. Senza il minimo cinismo».
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Eppure non è tanto la storia in sé ad attrarre, quanto la messa in scena, forte dei paesaggi mozzafiato della Val d’Ayas, ai piedi del Monte Rosa, e della fotografia di Ruben Impens (assiduo collaboratore di Van Groeningen con cui ha girato, tra gli altri, lo straziante Alabama Monroe – Una storia d’amore, del 2012, e Beautiful Boy, con Timothée Chalamet e Steve Carrell). Apprezzabile l’utilizzo del formato in 4:3, a suggerire le vecchie diapositive, e la decisione di riunire sul grande schermo due attori italiani molto amati come Luca Marinelli (che interpreta Pietro) e Alessandro Borghi (Bruno), divenuti amici, proprio come i due protagonisti de Le otto montagne, dai tempi del loro primo lavoro insieme, Non essere cattivo di Claudio Caligari, del 2015. Non altrettanto encomiabile la scelta, ormai condivisa da molto del cinema contemporaneo, di una colonna sonora a volume altissimo, a sottolineare in maniera didascalica e spesso forzata i sentimenti e le emozioni che lo spettatore dovrebbe provare, quasi a non fidarsi della potenza delle immagini in sé. E sì che le tracce di Daniel Norgren, cantautore svedese molto apprezzato, sono invece godibilissime.
Il successo del film, però, si deve in gran parte a Borghi che – finalmente dismesse le divise che gli impone il suo essere testimonial Gucci – torna a essere il bravo attore che spesso si è incontrato, concentrato sulla recitazione, sul dialetto, sull’espressività del suo fisico più che sul suo aspetto estetico. A lui il compito di vestire i panni di Bruno (in parte ispirato a Gabriele Rambo Vuillermin, protagonista de Il ragazzo selvatico di Cognetti, a cui il film è stato dedicato dopo l’improvvisa scomparsa): ultimo bambino a crescere a Grana, sperduto villaggio della Valle d’Aosta, resterà tra le sue montagne fino all’ultimo, affidando loro la sua vita, il suo sostentamento e la sua felicità. Malgrado sia Moby Dick di Herman Melville il libro che gli si vede leggere, non è una sfida contro la natura la sua.
«Solo voi di città la chiamate natura. Per noi si chiama ruscello, alberi, neve, montagna», tuona bonariamente nei confronti degli amici di città di Pietro.
La sua montagna è concreta, non è un concetto astratto: è fatica prima ancora che bellezza; è rispetto e mai sopraffazione. A Pietro, invece, quello che è il mondo intero per Bruno non basta. Ragazzino di città come è, deve sottostare alle regole di suo padre, nella sua famiglia piccolo borghese, diviso tra i doveri nella fabbrica di Torino e la passione per l’alta montagna. Resterebbe uno dei tanti, identico per aspirazioni e desideri a centinaia di ragazzi come lui, se non trovasse nel viaggio la sua ragion d’essere e nel Nepal una seconda casa. È lì che entra in contatto con la cosmologia induista per la quale Sumeru, la montagna più alta, è al centro del mondo, circondata da otto mari e otto montagne:
«Chi ha imparato di più? Chi ha visitato “Le otto montagne” o chi ha raggiunto la vetta del Sumeru?», si chiede il buddista.
La risposta che Pietro sembra darsi, alla fine del film, è che in fondo non è importante quanto si conosce ma come. L’importante nella vita, par suggerire la visione de Le otto montagne, è rimanere fedeli alla propria indole. È quello che fa Bruno, è quello che proverà a fare Pietro, legati per sempre dall’amicizia e dall’amore per la montagna.
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Saperenetwork è...
- Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.
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