L’Italia delle biciclette. E di chi le rubava per campare
Con “Ladri di biciclette”, De Sica racconta l’Italia povera del secondo dopoguerra e documenta un’epoca pre-automobilistica. Un capolavoro da rivedere e su cui riflettere dentro un sistema della mobilità in trasformazione
Per molti di noi le città sono “sempre” state occupate dalle automobili. Un film come Ladri di biciclette viene percepito oggi come la storia di una famiglia di disgraziati che nel secondo dopoguerra non poteva permettersi il lusso di un’auto e nemmeno tanto di una bicicletta. Ciò non intacca la bellezza formale del capolavoro di Vittorio De Sica, ma quel film del 1948 ci racconta un’Italia profondamente diversa da quella attuale, la cui memoria è ormai sbiadita, e che rappresenta un’età pre-automobilistica. Una società i cui modelli di mobilità erano profondamente diversi da oggi. E la bicicletta era la regina della strada, in tutti i sensi.
Le due ruote regine della strada
L’invenzione della bicicletta risale al XIX secolo. I primi modelli, senza pedali, si chiamavano “drasina” dal nome di Karl Friedrich Christian Ludwig Drais von Sauerbronn, il barone tedesco che la inventò per sopperire alla mancanza di avena per cavalli, diventata improvvisamente costosa per la crisi agricola del 1816, dovuta ai repentini cambiamenti climatici dovuti alle eruzioni del vulcano Tambora.
Un mezzo scomodo all’inizio, difficile da manovrare al punto che alcune città ne vietarono l’uso pubblico per ragioni di sicurezza. È solo alla fine dell’Ottocento che essa assume forme e dimensioni a noi più note. È allora che comincia diffondersi nelle grandi città.
La diffusione in Italia
Nel 1895 in Italia se ne contavano circa trentamila, di cui solo un terzo di produzione nazionale: 6.200 a Milano, 5.000 a Torino, 4.000 a Roma e 3.000 a Firenze. Si tratta ancora di un bene di lusso, molto costoso e che solo le classi più agiate possono acquistare, per il tempo libero ma anche per muoversi all’interno delle città più liberamente e più velocemente. La cattiva fama di cui le due ruote avevano goduto dovuta all’imperizia dei primi ciclisti viene così lentamente erosa, affiorano i primi regolamenti municipali che, anziché vietarne l’uso, lo regolamentano. Ma è una legge nazionale del 1897 a sancirne la definitiva liberalizzazione: i velocipedi possono circolare in tutto il Paese previo, però, il pagamento di una tassa di possesso di 10 lire.
La bicicletta modifica la percezione degli spazi urbani, in qualche modo anticipa (e rende meno rivoluzionario) l’avvento delle auto che avverrà molto più tardi: nel 1933 infatti in Italia si contavano quasi tre milioni e mezzo di biciclette contro le 293.000 automobili e le 125.000 moto. Nel 1958 le biciclette erano diventate addirittura 10,8 milioni contro i 2 milioni delle auto e i 3,6 delle moto. Solo alla fine degli anni Sessanta le auto divennero le padrone della strada.
Da bene di lusso a mezzo proletario
Fra il 1897 e gli anni Cinquanta, a cavallo delle due guerre, la bicicletta si era proletarizzata: da mezzo di lusso, pur rimanendo il suo costo per molti anni sostenuto, divenne via via il veicolo preferito dai lavoratori. Molte testimonianze degli anni Quaranta e Cinquanta raccolte dalla sociologa Angela Cattaneo in Prigionieri del traffico raccontano di intere famiglie che in quegli anni non possedevano l’auto e la bici era il vero mezzo di famiglia, con la quale i genitori, soprattutto i padri, andavano a lavoro dal lunedì al sabato e poi, la domenica, lasciavano che ci salissero anche i figli. Non stupisce che Vittorio De Sica concepisca e realizzi uno dei suoi capolavori intorno a questo mezzo.
Guarda il documentario su Vittorio De Sica
Ladri di biciclette, tra miseria e speranza
Negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, Antonio, protagonista del film, trova lavoro come attacchino, ma per girare a città deve avere un mezzo proprio. La prima parte del film racconta la gioia di questa famiglia poverissima (come tante allora) che vive in periferia davanti alla possibilità di un lavoro e quindi del riscatto sociale. Pur costretti a impegnare le lenzuola per riscattare la bicicletta di famiglia dal banco dei pegni, nella prima parte di Ladri di biciclette si assiste ad una crescente vena di speranza.
Guarda il Trailer del film Ladri di biciclette di Vittorio De Sica
Così la mattina del suo primo giorno di lavoro Antonio esce di casa felice: lascia suo figlio, il piccolo Bruno, alla pompa di benzina dove il bambino lavora, e comincia il suo giro di “attacchinaggio”. Mentre stende su un muro un manifesto cinematografico (è Gilda con Rita Hayworth), un giovanotto con un berretto da soldato tedesco gli ruba la bicicletta.
Capolavoro del Neorealismo
A nulla serve la denuncia in Polizia e, così, all’indomani comincia una lunga odissea per le vie di Roma, accompagnato dal figlioletto Bruno. Frustrato e in qualche modo beffato anche dalla sorte (troverà il ladro, ma sarà costretto a lasciarlo andare) decide, in un crescendo drammatico, di rubare egli stesso una bicicletta. Sorpreso in flagrante sta per essere trascinato al commissariato ma saranno le lacrime di Bruno a muovere a pietà la folla che fra gli insulti lo lascerà comunque andare. Senza più la bicicletta, senza più il lavoro e senza ormai dignità Antonio, prendendo per mano il figlio, si mescolano alla folla.
Sceneggiatura di Zavattini, regia di De Sica, attori non professionisti presi dalla strada, il film è considerato una delle pietre angolari del neorealismo italiano e ancora oggi uno dei punti più alti del cinema mondiale. Nel 1949 si aggiudicò anche il premio Oscar come miglior film straniero.
Guarda l’intervista a Cesare Zavattini
La bici nell’immaginario del dopoguerra
Nel leggere i rapporti statistici spesso dimentichiamo la fitta rete di rapporti sociali e familiari che rappresentano. I milioni di biciclette che popolavano le vie dell’Italia appartenevano a questo microcosmo individuale di cui era costituito il paese allora. De Sica, nella parte finale del film, ci mostra decine di biciclette ammassate fuori dallo stadio Olimpico, altre abbandonate sui cigli delle strade o sugli usci delle case.
Si tratta certo di una visione soggettiva del protagonista Antonio che, stufo del suo peregrinare, vede un’abbondanza alla quale egli non può accedere, ma sono anche la foto esatta della mobilità di quel tempo.
Ladri di biciclette è, allora, sì principalmente la storia di Antonio e Bruno, ma è anche un monumento a questo mezzo di locomozione che, nella narrazione come nella realtà, è portatore di lavoro, cibo e speranza. Nell’immaginario dell’epoca, è capace di liberare gli uomini dal bisogno reale ma anche di alleggerirne lo spirito rullando, silenziosamente, le gomme sulle strade.
Le due ruote al cinema
In bicicletta, al cinema, andranno anche Don Camillo e Peppone, e Delia Scala con Silvana Pampanini in Bellezze in bicletta (Italia, 1951, regia di Carlo Campogalliani), correrà il principe De Curtis in Totò al giro d’Italia (Italia, 1948, regia di Mario Mattoli), ma più leggero di tutti pedalerà Jaques Tatì, ingenuo postino, in Giorno di festa (Jour de fête, Francia, 1947, dello stesso Tatì).
In anni più recenti Ladri di biciclette ha goduto di due remake/omaggi da parte del cinema orientale, dove la bicicletta è ancora il mezzo più popolare con sui spostarsi: il vietnamita Cyclò (vd.) di Tràn Anh Hùng, anche se in effetti si tratta di un risciò, e Le biciclette di Pechino (vd.) di Wang Xiaoshuai.
Guarda il Trailer del Film Le Biciclette di Pechino
Saperenetwork è...
- Giornalista professionista e divulgatore, cura e conduce le puntate dedicate ai temi ambientali per la trasmissione Wikiradio, in onda Rai Radio 3. Dirige il premio “Green Drop Award” realizzato insieme a Green Cross international presso la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Scrive per la rivista “Materia Rinnovabile”, occupandosi d’innovazione. Come autore televisivo ha scritto la serie d'animazione “Due amici per la Terra”, in onda su Rai3 e il documentario “Cinema & Ambiente” per Dixit scienza, su Rai Storia. È tra i curatori del rapporto annuale GreenItaly di Unioncamere. È direttore scientifico del centro studi Green Factor, cura la rubrica web quotidiana “Un giorno alla volta”, fa parte dell'ufficio di presidenza della FIMA, Federazione Italiana Media Ambientali.
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