Sin señas particulares. Viaggio silenzioso nei territori della paura
Il viaggio di una madre messicana alla ricerca del figlio di cui non ha più notizie da quando è partito per gli Stati Uniti. È un racconto asciutto e spietato l’opera prima di Fernanda Valadez, che ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Torino Film Festival
Sin señas particulares, opera prima della regista messicana Fernanda Valadez, ha vinto il Premio Speciale della Giuria alla trentottesima edizione del Torino Film Festival appena conclusa. Alla protagonista, Mercedes Hernandez, è andato il riconoscimento come migliore attrice. Sceneggiato da Fernanda Valadez insieme ad Astrid Pondero, è un film scarno e potente, essenziale nei dialoghi come nei sentimenti. Carico di umanità, nonostante la violenza, cieca e fuori controllo, di cui gradualmente si delineano i contorni fino all’apoteosi dell’orrore. La paura monta lentamente, al ritmo della ricerca di una madre, Magdalena, del figlio, Jesus, scomparso dopo essere partito per trasferirsi illegalmente negli Stati Uniti.
Road movie nei territori del male
La madre vuole sapere se è vivo. Il suo bisogno è viscerale, la sua determinazione primordiale com’è l’attaccamento a un figlio. Comincia il suo viaggio attraverso un paesaggio aspro, quasi un road movie nei territori del male, che colpisce per la maturità del suo linguaggio filmico e per la sua pudicizia. Quella della regista, che non fa nessuna concessione al sentimentalismo – tanto che il film è senza musica, solo rumori ambientali – e quella dei personaggi, umili e pieni di dignità. Sono le immagini a dire la sofferenza.
Una frontiera inafferrabile
Un film senza sbavature, già premiato al Sundance festival, al festival di San Sebastian, al Festival di Morelia e ai Gotham Independent Film Awards , che nasce dal desiderio (o dal bisogno) della regista di confrontarsi con i massacri e i sequestri di persona del narcotraffico che hanno colpito l’interno del Messico, in particolare negli anni 2011 – 2012. Non è una storia sull’immigrazione. La frontiera si vede, ma una sola volta, e comunque al di qua, al ritorno di Miguel, un giovane espulso dagli Usa dopo cinque anni di clandestinità.
Tra natura indifferente e umanità diabolica
Si incrociano destini, con delicatezza, in un mondo di omertà, ma soprattutto di terrore. Terrore di tutti, dagli impiegati della società delle corriere, ai poliziotti di un posto di blocco, a un vecchio superstite che parla un’altra lingua, per noi incomprensibile, eppure chiarissima. Sui paesaggi aleggia un senso di abbandono, la natura è indifferente ma tutt’altro che brutta, a volte piove.
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L’inquadratura si allarga, lo sguardo spazia, per poi tornare sui dettagli e i volti o incorniciare l’azione tra i bordi di una finestra, il portellone di un camion. In questa desolazione, chi è brutto è l’uomo, e la mostruosità della sua violenza si fa diabolica. Il viaggio agli inferi si conclude, tra le urla, con il fuoco.
In una visione sfocata da realismo magico, è il diavolo a incarnare quell’orrore, a cui la regista ci ha portato a piccoli passi, seguendo i personaggi spesso di spalle, senza alcun compiacimento e senza schizzi di sangue. Tranne uno, sul finire.
Saperenetwork è...
- Alice Scialoja, giornalista, lavora presso l'ufficio stampa di Legambiente e collabora con La Stampa e con La Nuova Ecologia. Esperta di temi ambientali, si occupa di questioni sociali, in particolare di accoglienza. Ha pubblicato il libro A Lampedusa (Infinito edizioni, 2010) con Fabio Sanfilippo, e i testi Neither roof nor law e Lampedusa Chapter two nel libro Mare Morto di Detier Huber ( Kerber Verlag, 2011). È laureata in Lettere, vive a Roma.
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