Glory Wall, quel muro bianco tra libertà e censura

Provocatorio, impudico, divertente, disperato. Cosa potremmo pretendere di più da uno spettacolo teatrale? E infatti Glory Wall di Rocco Placidi e Leonardo Manzan, interpreti insieme a Paola Giannini, Giulia Mancini e Alessandro Bay Rossi, ha vinto nel 2020 la Biennale Teatro portandosi a casa il titolo come Migliore spettacolo. Dopo l’ibernazione da Covid, l’allestimento ha ripreso la tournée ed è tornato in scena a Roma, ospite del Teatro Vascello anche co-produttore, e sarà nei prossimi giorni a Casalmaggiore, al Teatro della Tosse di Genova e poi a Montpellier.

 

 

Chi può, chi ama il teatro e chi s’interroga da qualche tempo sul ruolo e il peso della censura, non se lo lasci scappare. Glory Wall è uno spettacolo su commissione. Tema della Biennale Teatro di Antonio Latella: la censura. Così il giovane regista Manzan (classe 1992), già esordiente pluripremiato nel 2018 con It’s App to you non ci gira intorno e là dove si erge il topos per eccellenza del teatro, la quarta parete, quell’invisibile soglia che divide la scena dal pubblico, il chi agisce da chi guarda, la finzione dalla realtà, edifica un solido muro bianco di 12 metri sul quale, a luci di sala ancora accese, scrive ticchettando alcune riflessioni. 

Cos’è la censura? Come può uno spettacolo sulla censura non essere censurato? E soprattutto: perché qualcuno dovrebbe censurarlo? Ma«Se nessuno ci censura è perché nessuno si interessa del teatro». Un cortocircuito madornale che costringe il regista ad unica scelta: autocensurarsi.

Il muro di gesso è nato così e rivela nel suo paradosso il vincolo vivente con lo spettatore. Davanti al muro-sipario, lo sguardo rimbalza immediatamente sul pubblico illuminato, mentre oltre il muro lo spettacolo c’è ma non si vede. «Portare a casa lo spettacolo da dietro a un muro – dice Manzan – significa abituarsi a perdere un po’ il controllo della situazione, ma significa anche sentirsi più importanti e più liberi; del resto, questo fa la censura: dà credibilità alle opinioni che attacca».

 

   Guarda il video di Glory Wall 

 

O, meglio, si intuisce dai buchi che si stappano qua e là, lasciando intravedere una bocca sensuale che allude, anzi invoca lo hole wall delle pratiche porno; un mazzo di fiori, una sigaretta, libri e randelli, champagne e mani guantate di rosso che al meglio del Supplemento al dizionario italiano di Munari raccontano, invitano, spiegano, citano, rifanno. «Lo spettacolo porta l’esperimento di Beckett con Not I a un livello superiore»,  si legge nella motivazione della giuria internazionale che ha premiato lo spettacolo e a noi vengono in mente il muro manu-fatto, costruito mattone su mattone dagli infaticabili e inarrivabili Rem&Cap di Cottimisti nel 1977 e poi le mani e i mattoni di Mura che il solo Remondi portò in scena cinque anni fa, quando ai muri eravamo ormai abituati.

Manzan non ricerca – per biografia e intenzionalità – né l’ideologia né la poesia di quegli allestimenti e gioca con il muro storicamente ormai dato con un gesto estetico contemporaneo al limite del frivolo. 

Con pochi cenni appaiono e scompaiono i tagli di Fontana, i murales di Bansky o i quadri di Manzoni e Delacroix, mentre la quarta parete si fa tela, pagina bianca, buco o bocca. E schermo da karaoke nell’epilogo della parte centrale quando alcuni spettatori, indicati dalla torcia di una mano rossa, sono chiamati a leggere sul muro-copione le battute del dialogo surreal-osceno tra tre grandi censurati dalla Storia: Pasolini, De Sade e Giordano Bruno.  Un corto circuito storico che si tinge di trash-pop con l’evocazione di Al Bano Carrisi, accusato dai servizi segreti ucraini di essere filorusso se non addirittura al soldo del Kgb (!). È l’acme della censura, del suo ridicolo e del suo pericolo, vanificato dal pubblico che spensierato e ignaro intona la mitica Felicità.

 

Un'altra immagine di Glory Wall
Un momento di Glory Wall. Il titolo allude alle hole wall delle pratiche porno

 

Scriveva Karl Kraus: «C’è una donna nella stanza prima che entri uno che la vede? Esiste la donna in sé?». E questa domanda tragica percola dai buchi di Glory Wall rispetto al teatro. Teatro umiliato dal tempo e dalle restrizioni, teatro in cui non ci si scandalizza più perché non c’è più niente di sacro, teatro piccolo mondo che si autocensura perché crede di avere ancora molto da dire.

È possibile, sensato, necessario buttare giù quel muro? 

Saperenetwork è...

Stefania Chinzari
Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.

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