La Tempesta di Shakespeare. Meraviglia e perdono secondo Alessandro Serra
Dopo Macbettu, il talento del pluripremiato regista mette in scena l’opera più matura del Bardo. Tra echi barocchi e rinascimentali, elementi naturali e sobrietà (post) moderna, un adattamento visionario che rapisce e coinvolge. Al Teatro Argentina di Roma fino al 15 maggio
Non è subito riconoscibile la strana condensa simile alla nebbia di mare che riempie la platea del Teatro Argentina di Roma prima che inizi La Tempesta di Shakespeare messa in scena da Alessandro Serra. L’aria si raffredda, la vista si appanna prima di riconoscere la forma di tante piccole, microscopiche gocce, una strana e lievissima pioggia che un po’ alla volta avvolge il pubblico ancora alla ricerca dei propri posti, preso dalle chiacchiere. Che sia opera di Ariel, spirito in azione sul palco, che sta scatenando una tempesta a ritmo di danza, come le ha ordinato il suo padrone Prospero, lo capiamo solo quando arriva il buio in sala, ed è allora che ci accorgiamo di essere sull’isola inventata da William Shakespeare nel 1611, immersi nella foschia preludio del temporale, tra le onde che si muovono convulse seguendo i passi della scattante folletto.
In pieno barocco, quando il teatro era meraviglia e stupore, esperienza emotiva e ludica, caleidoscopio di colori e sensi che mischiavano colto e popolare, partecipazione visiva che inventava mondi di cartapesta e marchingegni fantastici. Sorpresa e rapimento.
Ecco dove sembra di essere finiti quando inizia La Tempesta secondo Serra, talento del teatro italiano ed europeo, creatore di spazi, tempi e mondi, e per questo degno erede della grande tradizione teatrale seicentesca e ottocentesca. Che fu, appunto, incanto.
Per il suo ritorno a Shakespeare, dopo l’acclamato Macbettu in cui ha tradotto e trascinato (in tutti i sensi) la leggendaria tragedia scozzese nel bel mezzo del Carnevale barbaricino, ha scelto quella che all’unanimità viene ritenuta l’opera più matura del Bardo, e che, d’altronde, precedette di pochi anni la sua morte. Il dramma che, “dopo tanta tenebra, si rifà luce”, lo definiva Silvio D’Amico, la favola del duca di Milano Prospero, mago e filosofo, dominatore di spiriti (“buoni” come Ariel, “cattivi” (ma non proprio) come Caliban), spodestato dall’invidioso fratello Antonio in combutta con il principe di Napoli Alonso, e approdato, naufrago, su un’isola deserta insieme alla figlia Miranda.
È la Natura e i suoi elementi, la pioggia, il mare, le onde, che conducono a Prospero, colui che è in grado di dominarli. Inquadrato in un unico cono di luce insieme alla figlia sulla scena nera di un buio salmastro che inghiotte e taglia lo sguardo, il nobile spodestato approda sulla scena come un novello e canuto Duca Bianco, in abiti che richiamano quelli di una rockstar senza tempo, con fogge quasi steam punk nel loro bianco regale. Gli abissi del mare e una Natura matrigna preludono ad una tragedia non meno sanguinaria delle precedenti: e difatti ecco il naufragio “ordinato” agli elementi per vendetta da Prospero. Sulla stessa isola che non si pensava ci fosse e che invece c’è, forse nel Mediterraneo, forse ai confini del Mondo (in quelle Bermuda dove pochi anni prima alcuni marinai inglesi naufragarono e vissero per mesi per poi essere recuperati, antefatto che quasi certamente ispirò il Bardo) finiranno Antonio, Alonso e il figlio Ferdinando, insieme a Sebastiano e all’ignaro, innocente Gonzalo, vecchio nobile napoletano dal cuore puro.
Ancora una volta torna la vendetta (d’altra parte Shakespeare è colui che “ha inventato l’uomo”, diceva Harold Bloom) mossa dalla perdita del potere, della stima, dalla delusione delle amicizie e degli affetti. Ma Prospero, oltre che di magia è uomo di ragione e cultura, e padre capace di ascoltare e capire.
D’altronde che cos’è la magia se non la capacità di scoprirsi, nel pieno della rabbia per le ingiustizie subite, capaci di perdonare?
Non è certo un perdono che nega e cancella quello che Shakespeare, uomo del Rinascimento, aveva in mente: il duca resta consapevole e dichiara il male di cui si sono macchiati i suoi amici (in primis il fratello “sangue del suo sangue”), abbandonandolo affinché morisse con Miranda ancora bambina. Tuttavia sceglie la via della ragione, perché è l’unica in grado di non aggiungere altra tragedia alla tragedia. Ragione o magia, ragione e magia per chi si scopre (torna lo stupore barocco) capace di perdonare.
Nell’isola in cui tutto può succedere il Bardo ribalta il topos della sua tragedia: mentre Macbeth era la tragedia del delitto/rimorso che “uccide il sonno”, qui tutti prima o poi cadono addormentati.
Se Re Lear era la tragedia di figli ingrati e voraci e di padri che non capiscono, la Tempesta è una storia di paternità esemplare, un rapporto padre figlia talmente sano che della madre non si sente lontanamente la mancanza. Non poteva, dunque, non scegliere questo dramma, ricco di elementi comici (che non ci sono né in Macbeth né in Re Lear), Alessandro Serra, il regista che con Prospero condivide la stessa vocazione per la magia del palco, per tradurla (ancora una volta) in uno spazio visionario, suo personalissimo barocco sobrio, in cui le unità aristoteliche si inseguono e cavalcano il ritmo delle onde marine e della sostanza più intima dei sogni.
Lo spettacolo brilla soprattutto per alcuni, intensi, incredibili momenti: i già citati minuti iniziali, potenti come il battito cardiaco del telo nero che simula le onde e i venti della tempesta, i cortei di freaks degni di Todd Browning, le meravigliose (ancora la meraviglia) maschere e teste di legno animalesche create dall’arte di Tiziano Fario, il surreale matrimonio tra Ferdinando e Miranda che piacerebbe al Tim Burton di Beetlejuice e della Sposa Cadavere.
È, quello di Serra, teatro assoluto, che si fa e si disfa come una vera esperienza pre novecentesca, visione onirica (della stessa sostanza di cui siamo fatti…) che attinge e si nutre dell’incanto cinematografico, resuscitato sul palco in questi tempi in cui il cinema è dimenticato, ridotto a pigra piattaforma casalinga.
Un incanto che infonde speranza, con la bravura di Marco Sgrosso e del suo Prospero distaccato, della frizzante Ariel di Chiara Michielin e che non disdegna (non poteva essere altrimenti) gli sketch dialettali, recuperando addirittura i fescennini con i siparietti degli ubriaconi Stefano (Massimiliano Poli) e Trìnculo (Vincenzo Del Prete). E poi c’è la Natura, che noi che siamo “fatti della stessa sostanza dei sogni”, ci illudiamo di poter dominare: Caliban, primordiale abitante e padrone dell’isola reso schiavo da Prospero, spodestato dalla civiltà bianca (che gli ha “insegnato a parlare”) a casa sua. È lui, la sua voce (potente, ancestrale), la vera Tempesta, il monito del Bardo (che aveva letto Montaigne) che Serra recupera e affida all’eccezionale Jared McNeill, splendido perdente come Otello. “Barbaro” che, proprio come il Moro di Venezia, cerca giustizia e architetta vendetta, non perché malvagio, ma perché profondamente ingenuo e quindi intimamente nobile.
La Tempesta secondo Alessandro Serra (che oltre alla regia cura suono, scene, luci e costumi) è al Teatro Argentina di Roma fino al 15 maggio. Una coproduzione del Teatro di Roma – Teatro Nazionale con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, ERT – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro, Festival d’Avignon, MA scène nationale – Pays de Montbéliard, in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia e Compagnia Teatropersona.
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Saperenetwork è...
- Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.
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