Ramona e Giulietta e il teatro che abbatte i muri. Intervista a Francesca Tricarico

Le protagoniste di "Ramona e Giulietta", riscrittura del capolavoro shakespeariano con la regia di Francesca Tricarico

«Il timore è quello della sala semivuota, l’incubo di tutti i teatranti, soprattutto dopo questi due anni di pandemia. La speranza più grande, invece, è che il pubblico venga non solo a vedere lo spettacolo, ma partecipi anche all’incontro che lo precede dove si racconta il progetto e la valenza del teatro come strumento di inclusione, non solo all’interno del carcere ma anche, e soprattutto, tra il mondo del carcere e il fuori».

Giorni frenetici per Francesca Tricarico, regista e autrice che mercoledì 18 maggio porta allo Spazio Rossellini di Roma (il Polo culturale e multidisciplinare della Regione Lazio nato all’interno dell’istituto Cine-tv negli studi in cui ha girato il grande regista romano) Ramona e Giulietta, scrittura tragicomica della tragedia shakespeariana che esce dagli spazi della Casa circondariale femminile di Rebibbia per incontrare il pubblico “vero”. Lo spettacolo sarà preceduto, alle ore 19.00, dalla presentazione del progetto Le Donne del Muro Alto con interventi, tra gli altri, del magistrato di sorveglianza Marco Patarnello, Daniela de Robert per il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale e di Alessia Giuliani per la Casa Circondariale Femminile di Roma Rebibbia.

 

Francesca Tricarico
Francesca Tricarico. La regista e autrice mercoledì 18 maggio porta “Ramona e Giulietta” allo Spazio Rossellini di Roma (Foto: Emilia Meoli)

 

Francesca, raccontiamo la genesi di questo spettacolo
È il punto di arrivo di un progetto partito nel 2016. Ero attiva già da tempo nel carcere di Rebibbia, sapevo per esperienza che non è il paese dei balocchi, ma in quel periodo il gruppo di dieci donne con cui lavoravo era quasi ingestibile.

Rabbia, conflitti e tensioni erano altissimi. Scavando e parlando, capiamo che la rabbia nasceva dalla prima unione civile tra donne detenute da poco celebrata proprio a Rebibbia.

In quei mesi, anche il mondo esterno proponeva, tramite Tg e trasmissioni televisive, ampi servizi e polemiche sulle famiglie arcobaleno. Apparentemente le due fazioni erano tra chi pensava che l’istituzione carceraria fosse all’avanguardia e avesse permesso un grande passo in avanti rispetto ai diritti civili e tra chi ne parlava come di un fatto vergognoso e inaccettabile.

 

 

Come ha potuto il teatro trasformare il conflitto in un’occasione di scambio?
Come sempre, ho proposto un testo famoso e classico da ricucire e riscrivere sulla loro esperienza e sulle urgenze del momento e abbiamo cominciato. Per due mesi, durante le prove, si sono dette di tutto, anche io ho visto venire a galla i miei tabù più nascosti perché questo fa il carcere, annulla le differenze e diventa una lente di ingrandimento sulla società intera, sugli uomini e le donne nelle loro relazioni profonde. E pian piano, all’interno della cornice teatrale che rende possibile e plausibile lo scontro tra opinioni scomode e il confronto vero e durissimo, è venuta a galla la verità. Quel matrimonio aveva messo in luce la privazione di chi in carcere non può vivere l’amore, l’affetto, la sessualità.

Tutta la rabbia altro non era che la scoperta della propria fragilità e di un dolore immenso. Perché cosa diventa un essere umano senza affetto?

È questa la domanda che offriamo al pubblico che viene a vederci.

 

Un'altra scena dello spettacolo Ramona e Giulietta
Un’altra scena dello spettacolo diretto da Francesca Tricarico. La regista è attiva dal 2016 nel carcere di Rebibbia

 

La compagnia si chiama “Le Donne del Muro Alto”. Quanto è faticoso e possibile uscire dalle mura anche interiori del carcere?
Si chiama così dal primo progetto, quando, nel 2013, dopo alcune esperienze con detenuti uomini, ho iniziato a lavorare con dieci donne della sezione di Alta sicurezza, sempre a Rebibbia. È un carcere nel carcere, con regole proprie ed è da lì che ci proponiamo di abbattere muri, uno dopo l’altro, per costruire ponti: i muri all’interno delle case di pena, i muri dello stigma sociale che penalizza in modo assai più rilevante proprio le donne, quelli dell’amore tra donne e quelli, non certo semplici, della vita dopo il carcere a cui appartiene anche questo spettacolo. Per scelta, perché l’inclusione non sia una chimera o una parola vuota, nella compagnia attuale che è composta da ex detenute, donne libere o semi libere ammesse alle misure alternative alla detenzione, c’è anche un’attrice professionista.

 

Sul palco due protagoniste dello spettacolo
Un altro momento dello spettacolo. «Alle donne – spiega Francesca Tricarico – si perdona meno di aver sbagliato ed è per questo che recitano in abiti bianchi: sono lì per lavare i panni sporchi del loro vissuto»

 

 

Dalla Compagnia della Fortezza di Volterra guidata da Armando Punzo a Cesare deve morire dei fratelli Taviani le esperienze di teatro in carcere sono spesso destinate ai detenuti, Un’ennesima discriminazione di genere?
Quando ho espresso il desiderio di dedicarmi alle detenute, tutti – persino Punzo durante un seminario – hanno provato a scoraggiarmi. Sono difficili, rabbiose, diffidenti, mi dicevano. Ed è vero. Un uomo la trova sempre una moglie, una madre o una sorella che lo vadano a trovare. Le donne no e in carcere vivono, se possibile, ancora più privazioni, più solitudine e abbandono, a cominciare dalla lontananza dai figli.

Alle donne si perdona meno di aver sbagliato ed è per questo che recitano in abiti bianchi: sono lì per lavare i panni sporchi del loro vissuto, ci mettono la faccia e dopo tutti questi anni so quanto è doloroso.

Ma non è facile conquistare la loro fiducia e il primo anno è stato un incubo. Volevano capire se fossi veramente lì per loro oppure, come tanti personaggi pubblici, per progetti-spot di autopromozione. Quando sono passata alle sezioni comuni ho poi trovato un’altra realtà, perché il carcere è come una città con i suoi diversi quartieri. Qui ci sono anche le detenute straniere, donne molto povere o chi soffre di patologie psichiatriche e dipendenze. Però tutte hanno lo stesso desiderio di riscattarsi, di voler raccontare il carcere che non si vede e le donne che stanno dietro al bollino “detenuta”, perché se ci fermiamo al bollino si resta tali anche quando si esce.

 

 

Cosa c’è nel vostro futuro?
Tanti progetti, per fortuna, dopo questi due anni in cui non ho potuto entrare in carcere per la pandemia e ricevere le loro mail, leggere del loro isolamento, è stato devastante. Voglio ringraziare il magistrato di sorveglianza Marco Patarnello per la grande fiducia e l’apertura che ci ha concesso. Adesso lavoriamo alla tournée di Ramona e Giulietta che vorremmo portare nei teatri e nelle scuole, ad uno spettacolo nuovo sullo sfruttamento nel mondo del lavoro tratto da Euripide, al laboratorio con gli studenti di Scienza della formazione di Roma Tre, allo spettacolo sulla pandemia con le donne dell’Alta sicurezza. Sono un’incosciente, mi dico. Ma credo in questa grandissima opportunità. E spero che i fondi ci garantiscano la continuità necessaria a iniziative come queste, che non sono il portare pio conforto a chi sta dentro, ma permettere al carcere e alle detenute di riflettere sulle domande e sulle emozioni di tutti noi.

 

 

Per saperne di più

www.ledonnedelmuroalto.it

 

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Stefania Chinzari
Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico, counselor dell’età evolutiva e tutor dell’apprendimento. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti.
Svolge attività di formazione in tutta Italia sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione. E’ stata maestra di classe nella scuola steineriana “Il giardino dei cedri” per 13 anni e docente all’Università di Cassino. E’ membro del Gruppo di studio e ricerca sui DSA-BES, della SIAF e di Airipa Italia. E’ vice-presidente di Direttamente onlus con cui sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
Giornalista professionista e scrittrice, ha lavorato nella redazione cultura e spettacoli dell’Unità per 12 anni e collaborato con numerose testate. Ha lavorato con l’Università di Roma “La Sapienza” all’archivio di Gerardo Guerrieri e pubblicato diversi libri tra cui Nuova scena italiana. Il teatro di fine millennio e Dove sta la frontiera. Dalle ambulanze di guerra agli scambi interculturali. Il suo ultimo libro è Le mani in movimento (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.

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