“Utama – Le terre dimenticate”, il grido disperato in difesa di un mondo che si estingue

Utama, di Alejandro Loayza Grisi è nelle sale italiane dal 20 ottobre. Ha vinto il Premio della Giuria al Sundance Film Festival 2022

In aymara, lingua ufficiale della BoliviaUtama significa “la nostra casa”, una casa che nel film di Alejandro Loayza Grisi è in un territorio vulnerabile, esposto ai cambiamenti climatici ma poco rappresentato e quasi dimenticato dalle nostre parti, a più di 3.500 metri sul livello del mare, nell’altopiano sudamericano. È qui che in Utama – Le terre dimenticate, al cinema in Italia distribuito da Officine Ubu dal 20 ottobre, vivono Sisa e Virginio, due anziani di una famiglia Quechua tra i pochi a non aver lasciato il raccolto e i pascoli dei lama per andare a vivere in città, dopo che una devastante siccità ha ridotto il terreno a una landa desolata.

«Gli sconfinati paesaggi, le riflessioni e i ritratti che mettono in risalto gli sguardi profondi dei personaggi sono i miei strumenti per raccontare una storia che interroga profondamente le questioni sociali, ambientali e umane in questi tempi di cambiamento», ha spiegato il regista.

 

 

 Il regista Alejandro Loayza Grisi (Foto: Michael Dunn)
Il regista Alejandro Loayza Grisi (Foto: Michael Dunn)

 

Campi lunghissimi, panorami mozzafiato a cui l’eccellente fotografia (affidata all’argentina Barbara Alvarez) riesce a dare ragione e dialoghi asciuttissimi fanno di Utama – Le terre dimenticate un piccolo gioiello (che dopo il premio della Giuria al Sundance Film Festival 2022 è stato scelto per rappresentare la Bolivia agli Oscar 2023) fatto soprattutto di immagini di cui sarebbe un peccato non godere su grande schermo. «Utama è un ammonimento. Le persone anziane rappresentano una coscienza perduta e una saggezza che raramente viene ascoltata. I personaggi di Virginio e Sisa, con tutta la saggezza maturata negli anni, rappresentano una cultura che ha visto le sue giovani generazioni perdere la lingua e il loro sapere mentre si integravano con un mondo sempre più globalizzato. La cultura Quechua, e le sue opinioni su morte, vita e natura, sono qualcosa di molto noto a La Paz, ma che sta scomparendo», si legge nelle note di regia.

 

 

 Guarda il trailer di Utama 

 

 

Altiplano è il termine spagnolo per indicare l’altopiano andino che si estende tra Bolivia, Perù, Cile e Argentina, dove La Paz, in Bolivia, è la città principale, che con il suo quasi milione di abitanti è considerata la più alta metropoli del mondo.

Negli ultimi trent’anni, la popolazione ha visto laghi prosciugarsi, ghiacciai ritirarsi, riserve idriche diminuire drasticamente in un territorio da sempre ostile, eppure solo negli ultimi tempi così inospitale.

Alle pendici della montagna, lontano dal paese e ancora di più dalla città, Virginio e sua moglie, ormai ottantenni, continuano a portare a pascolare i lama e occuparsi della casa e dell’orto, in una quotidianità consolidata dalla tradizione che vuole una divisione categorica di compiti e ruoli definita dal maschile e dal femminile, in un rapporto di rispetto ed equilibrio con la Natura. La pioggia che non cade da più di un anno (provando effetti disastrosi, non lo stucchevole divertissement messo in scena da Paolo Virzì in Siccità), i polmoni malati di Virginio e l’arrivo dalla città del giovane nipote Clever sconvolgono la loro routine. Irremovibile e silenzioso, Virginio rifiuterà fino all’ultimo non solo di accettare la modernità, ma anche la sua malattia, mostrando al nipote, con parole centellinate e gesti antichi, il legame tra gli esseri umani e la loro terra. La montagna sta morendo, il tempo si è stancato: gli Aymara dell’altopiano, che ancora sanno leggere i segni, ne sono consapevoli anche senza poter monitorare con sofisticate apparecchiature lo stato del ghiacciaio; sanno che tutto è connesso.

 

 

Nello sguardo del vecchio nonno che si oppone a seguire in città il nipote c’è lo sguardo di Dersu Uzala – Il piccolo uomo delle grandi pianure, di Akira Kurosawa, che supplica il suo amico di poter tornare nella foresta, ma c’è anche quello di Jake Sully in rivolta contro la sua compagnia che vuole trascinare i Na’vi lontano dall’Albero Casa di Pandora, in Avatar di James Cameron: c’è il rifiuto di ogni popolo ad abbandonare le proprie tradizioni e la propria casa per omologarsi alla cultura che la loro casa sta distruggendo, inconsapevole, lei sì, che sta distruggendo Utama, la nostra casa.

 

 

 

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Francesca Romana Buffetti
Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.

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