Voyage of Time. Il cammino della vita secondo Terrence Malick
Struggente e incredibilmente attuale in questi giorni in cui esplode la guerra in Ucraina. Il documentario del regista statunitense che indaga sulle origini della vita sulla Terra, co-prodotto da Brad Pitt, arriva finalmente al cinema in Italia dal 3 marzo
In queste ore, in cui torna al cinema lo struggente documentario a firma Terrence Malick, Voyage of Time, un pezzo di Europa ha ripreso a bruciare, vittima di un conflitto, l’ennesimo, che per lo sguardo della popolazione non ha alcun senso se non quello di dar sfogo alle forze distruttive che da sempre si confrontano e oppongono con quelle creative. Malick, regista superbo che da quasi 50 anni regala al mondo solo capolavori (più o meno riusciti, ma nessuno dei 10 film realizzati finora è meno di un assoluto capolavoro), parla anche di questo nella sua lunga meditazione: rispetto alla bellezza della creazione, l’apparizione dell’uomo è speranza e desolazione insieme.
A guardare Kiev, dopo la pioggia di missili che l’ha colpita nella notte tra il 24 e 25 febbraio 2022, come dargli torto?
Scene che abbiamo già visto ad Aleppo, a Sarajevo, a Baghdad, città invase e distrutte, dove – sempre – a pagare il prezzo maggiore sono stati donne e uomini, anziani e bambini, ma anche monumenti e animali (difficile, per chi l’abbia letta, dimenticare la scena raccontata da Murakami Haruki ne L’uccello che girava le viti del mondo, dove gli animali dello nello zoo di Hsin-Ching vengono uccisi per non essere lasciati alle truppe sovietiche in arrivo).
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Cosa c’entra tutto questo con un documentario co-prodotto da Brad Pitt e presentato alla 73esima Mostra del cinema di Venezia, nel 2016 (e in sala nei cinema italiani, finalmente, dal 3 marzo 2022), che esplora le origini della vita sulla Terra?
Nulla, ma tutto. Terrence Malick, infatti, è riuscito a dar vita a un racconto per immagini, accompagnato dalla voce di Cate Blanchett, capace di suggestionare a tal punto lo spettatore da shakerare con violenza nella testa quanto ha letto e studiato nella propria esistenza.
Ecco allora la Ginestra di Leopardi, il passaggio dal crudo al cotto di Lévi-Strauss, La persistenza della memoria di Salvador Dalì, l’eterno ritorno nitzschiano filtrato da Milan Kundera e dal suo L’insostenibile leggerezza dell’essere, il ricordo offuscato della pikaia, “nostra nonna”, in un articolo uscito agli inizi degli anni Novanta e finito a esser traccia per un tema scolastico: Voyage of Time è un cammino nelle proprie conoscenze, nel proprio percorso formativo prima ancora che il cammino della vita, come recita il sottotitolo italiano. Per 90 minuti la voce di Blanchett accompagna in un “viaggio poetico e provocatorio ricco di domande ancora aperte”.
Non è un caso, d’altronde, che Malick, per approcciare e mettere in scena l’opera, si sia prima misurato con lo studio astronomico, biologico, filosofico, incontrando docenti, ricercatori e innovatori, spaziando dalla fisica all’antropologia: “uno dei suoi più grandi sogni da realizzare“, ha lui stesso il progetto annunciato per la prima volta addirittura intorno al 1970 (in origine si intitolava Q).
Dopo più di 40 anni, quell’idea iniziale è progredita con quella lentezza e quella meticolosità che sono tra le cifre stilistiche dell’autore texano e ora è venuto alla luce, grazie anche ai supervisori agli effetti speciali del film (Dan Glass, che ha ricoperto lo stesso ruolo nella trilogia di Matrix, e Douglas Trumbull, che ha curato gli effetti speciali di film come 2001: Odissea nello spazio, Blade Runner e The Tree of Life).
In Voyage of Time, dunque, Malick invita lo spettatore a sondare passato, presente e futuro, ricostruendo la cronologia scientifica della Terra.
Dalla nascita delle stelle alla comparsa dell’uomo sul pianeta, si sprofonda così in 14 miliardi di anni, anche grazie a un nuovo formato sperimentale, al confine tra effetti speciali tradizionali ed effetti digitali all’avanguardia: attraverso la microfotografia, le immagini generate da supercomputer, creature viventi e immagini che somigliano a specie preistoriche è riuscito a riprodurre gli eventi cosmologici più immensi e le forme di vita più bizzarre, di cui nessuno è mai stato testimone.
Il tutto condito da una colonna sonora altrettanto potente e suggestiva: a curarla doveva essere Ennio Morricone, che aveva lavorato con Malick per I giorni del cielo (come raccontato in mondo sublime nel documentario a lui dedicato da Giuseppe Tornatore), ma il regista, alla fine, ha collaborato con il sound designer Joel Dougherty per «intrecciare suoni naturali e speculativi nell’universo del film» e il supervisore musicale Lauren Mikus per «scegliere una varietà di brani strumentali che evocano l’energia vorticosa, gonfia e creativa della vita ad entrambe le estremità della scala di magnitudo» (come si legge nell’articolo The Making of Terrence Malick’s Ambitious Documentary ‘Voyage of Time’, di Jordan Raup uscito su Thefilmstage.com).
Ogni elemento concorre a dar vita a un’armonia da cui si rimane affascinati come di fronte alla fiamma in un caminetto, nella contemplazione del fuoco, che come il tempo, tutto devasta. Proprio come la guerra. «È così forte la gioia. Perché non sempre?», si chiede la voce narrante. Già, perché non sempre?
Saperenetwork è...
- Antropologa sedotta dal giornalismo, dirige dal 2015 la rivista “Scenografia&Costume”. Giornalista freelance, scrive di cinema, teatro, arte, moda, ambiente. Ha svolto lavoro redazionale in società di comunicazione per diversi anni, occupandosi soprattutto di spettacolo e cultura, dopo aver studiato a lungo, anche recandosi sui set, storia e tecniche del cinema.
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