Lo scorso 3 aprile le scalinate del rettorato della Sapienza da bianche sono diventate rosse, fucsia e viola. Il presidio indetto da “Non una di meno” e dai collettivi universitari in seguito ai femminicidi di Sara Campanella, a Messina, e Ilaria Sula, a Roma, ha portato nei viali dell’Ateneo romano circa tremila persone. Per la maggior parte studentesse e attiviste che hanno guidato il corteo. Sul colonnato del rettorato sono comparsi i simboli del movimento femminista, sull’asfalto chiazze di vernice viola e sotto la statua della minerva la scritta: “ci vogliamo vivɜ””.


Le ragioni etniche di Nordio
Quasi contemporaneamente, a margine di un convegno a Salerno, il ministro della Giustizia Carlo Nordio riconduceva il femminicidio di Ilaria Sula a ragioni etniche. «Alcune etnie hanno sensibilità diverse dalla nostra verso le donne» è la sintesi del commento del ministro sul femminicidio di Sula, riferendosi alle origini filippine di Mark Sampson, responsabile del delitto. Oltre a ricondurre i femminicidi a una dinamica etnica invece che a un problema strutturale della nostra società, il commento del ministro è sbagliato nei fatti. I dati raccolti dall’Osservatorio nazionale di “Non una di meno” su femminicidi, lesbicidi e transicidi, indicano che nel 2024 quasi il 80% dei femminicidi commessi nel nostro paese è stato compiuto da uomini italiani.
Il ministro ha poi aggiunto come il governo abbia fatto il possibile per contrastare i delitti e la violenza contro le donne dal punto di vista «repressivo», facendo riferimento alla recente approvazione da parte del Consiglio dei ministri dello schema di Disegno di Legge che introduce il reato di femminicidio nel sistema giuridico italiano. Una misura però che non prevede alcuna strategia di prevenzione verso i reati di genere e che non è nata da un confronto con le realtà che, vivendo da protagoniste le violenze di genere, possono indicare le soluzioni.


Corteo arrabbiato
Quale è il vero problema lo ha chiarito, di nuovo, il corteo della Sapienza. Un corteo arrabbiato che ha ribadito come i femminicidi siano il risultato di un problema strutturale e radicato. Il risultato di uno squilibrio dei ruoli di genere all’interno di una società patriarcale (non c’entrano nulla le diverse etnie). Il presidio, che ha poi attraversato i viali dell’ateneo romano, è stato potente ed emozionante nei numeri e per come ha occupato lo spazio. Raccolto e quasi intimo durante il raduno fuori l’università. Arrabbiato e compatto durante il corteo.
Prima di tutto, autodeterminazione
Dai viali dell’università, le attiviste hanno chiesto centri antiviolenza negli atenei e l’adozione di programmi di educazione affettiva. Hanno ribadito l’autodeterminazione sui loro corpi. Hanno riaffermato che la violenza, in ogni suo grado, verso le donne non si consumerà nel silenzio, nella passività e nell’accettazione. Per quanto sistemica, non sarà normalizzata. Hanno scosso le chiavi di casa, dove spesso si consumano le violenze.


Violenze di famiglia
Nelle cronache di delitti, violenze e abusi sulle donne, la dinamica familiare e relazionale è infatti predominante. In Italia, il monitoraggio delle violenze di genere e dei femminicidi è un problema. Il Ministero dell’interno pubblica un report annuale sui dati, con aggiornamenti trimestrali. È un aggiornamento lento. Secondo il rapporto, nel 2024 in Italia si sono registrati «111 delitti con vittima di sesso femminile», 96 dei quali consumati in ambito familiare o affettivo e 59 perpetrati da partner o ex-partner.
Delitti di genere
A tenere costantemente aggiornati i dati sui delitti di genere (femminicidi, lesbicidi, transicidi) è l’Osservatorio nazionale di “Non una di meno”. Leggendo solo i numeri riferiti ai femminicidi, di 98 casi accertati dall’Osservatorio nel 2024, il 51% è stato perpetrato dal partner e il 12% dall’ex partner. Secondo i dati del Ministero pubblicati a inizio aprile, nel 2025 si registrano già 17 femminicidi, di cui 10 compiuti da partner o ex partner. Sono almeno 16 intanto i tentati femminicidi segnalati dal movimento femminista in questa prima parte di anno.


Problema politico
Nelle vicende che si concludono con un femminicidio, non accettare il “no” e “è finita” da parte di un uomo è uno dei problemi. Non è una reazione di sofferenza ma il rifiuto a considerare e accettare l’autodeterminazione, l’indipendenza e la volontà femminile. È un problema politico e sociale che diventa minaccia privata. Così come uno schiaffo non è un eccesso di rabbia ma un “rimettere al proprio – presunto – posto”. In queste dinamiche, il femminicidio non è l’esito di un comportamento sbagliato, della perdita di controllo, di un gesto estremo.
È il risultato finale di un agito che ha tappe precedenti di prepotenza. Insistenze, ricerche ossessive, insulti. Attenzioni non richieste, cioè stalking. Gesti “eclatanti” nei quali non viene considerata la volontà di riceverli o meno. Fra i dati riportati da “Non una di meno”, nel 2024 sono stati registrati 12 casi con denunce o segnalazioni per violenza, stalking, persecuzione nei mesi precedenti al delitto.
Educare alla parità
Per questi contesti, generati da come gli uomini considerano i rapporti maschio-femmina nelle dinamiche familiari e relazionali, l’educazione affettiva e alle relazioni è l’inizio – e solo una parte – per affrontare in modo serio le violenze di genere. Come sollecitano le associazioni, serve un’educazione che coinvolga il linguaggio, crei la cultura del consenso, insegni la parità. Un’educazione che dovrebbe anche creare una consapevolezza emotiva. È questa una prima strategia, politica, necessaria per prevenire le violenze.


Sentenza parziale
Come in altre occasioni, il corteo del 3 aprile alla Sapienza è servito a invocare soluzioni a un problema che non si arresta. Pochi giorni dopo la notizia del doppio femminicidio di Ilaria Sula e Sara Campanella, a Napoli è avvenuta un’altra violenza che rientra nell’elenco dei tentati femminicidi. Una donna è stata aggredita dall’ex compagno che, aiutato da due complici, ha tentato poi di ucciderla. A Barletta, in Puglia, nei bagni di un liceo sono comparse scritte che inneggiavano a Filippo Turetta, responsabile del femminicidio risalente a novembre del 2023 di Giulia Cecchettin e che in questi giorni è stato condannato all’ergastolo dai giudici della Corte d’Assise di Venezia con una sentenza che ha fatto discutere per aver riconosciuto l’aggravante della premeditazione del delitto.
Ma non quello di stalking e crudeltà.