L’eco-ansia, come e perché ci riguarda da vicino. Intervista al ricercatore Giacomo Rettori
Un progetto di ricerca dell’Università di Perugia punta i riflettori su quella che, secondo alcuni, sta diventando una delle malattie del secolo. A pochi giorni dalla conclusione della Cop26, abbiamo chiesto all’autore di spiegarci che cos’è la “climate change anxiety”. E in che modo minaccia la salute mentale dei più giovani
Mentre aumentano, in tutto il mondo, le pubblicazioni scientifiche che ne descrivono genesi e sintomi in modo dettagliato, se ne sente parlare sempre più spesso, in articoli su testate nazionali e internazionali, talk show televisivi, riviste specializzate. L’eco-ansia, la “climate change anxiety”, sebbene non sia ancora stata ufficialmente inserita nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5), manuale di riferimento per le patologie psicologiche, per alcuni rischia addirittura di diventare una delle malattie del secolo. Anche perché colpisce prevalentemente ragazze e ragazzi molto giovani, addirittura bambine e bambini, mettendo a rischio la loro salute mentale. Che cos’è esattamente e perché si chiama così?
«È una definizione nata da poco, dagli studi della professoressa Susan Clayton, esperta in Psicologia ambientale dell’Università di Wooster, in Ohio. Si tratta di una nuova tipologia di ansia, scaturita dalla percezione dei cambiamenti climatici. Il focus è sull’impatto emotivo provocato dagli eventi associati al cambiamento climatico, come siccità, grandi tempeste, tutto quello che riguarda i disastri naturali».
A parlare è Giacomo Rettori, ricercatore dell’Università di Perugia. Rettori, dottorando in Etica della Comunicazione della Ricerca Scientifica e dell’Innovazione tecnologica, del dipartimento di Filosofia, Scienze sociali, Umane e della Formazione, è impegnato in una ricerca interdisciplinare, coordinata dalla Professoressa Elisa Delvecchio, focalizzata proprio sull’eco-ansia. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a capire meglio che cos’è la climate change anxiety.
Quali sono i sintomi dell’eco-ansia?
Innanzitutto un disturbo d’ansia generalizzato. Possono esserci attacchi di panico, ansia da separazione, principalmente tutto ciò che riguarda depressione e “distress”, angoscia e ansia per il futuro.
Che risvolti ci sono nella vita quotidiana dei soggetti che ne soffrono?
Sono risvolti a volte inaspettati, ad esempio coppie che tendono a non avere figli per paura del futuro che li aspetta. Alcuni studi hanno messo in luce una percezione del futuro dal punto di vista economico molto stressante, caratterizzata da ansia e depressione, sintomi che possono scaturire in una vera e propria patologia.
Occorre specificare, infatti, che la “climate change anxiety” non è una patologia, perché non è ancora definita così. Il fine della ricerca è anche permetterci di capire se può essere definita così e nel caso mettere in pratica ciò che serve per curarla.
Guarda il video con la Professoressa Susan Clayton
Il suo progetto, da dottorando presso l’Università di Perugia, in cosa consiste?
Il progetto di ricerca indaga sul nesso tra cambiamento climatico e disadattamento psicologico, attraverso un approccio trans disciplinare, tra due ambiti principali, naturalistico ambientale e socio psicologico, in un gruppo di cosiddetti “emerging adults”, ossia la fascia d’età tra i 19 e i 25 anni. Sono laureato in Scienze Naturali, sto conseguendo invece il dottorato presso il Dipartimento di Filosofia. Ho quindi unito i due ambiti disciplinari.
Perché proprio gli “adulti emergenti”? Cosa rappresenta questa fascia d’età?
È un periodo caratterizzato da cambiamenti e relazioni in molti ambiti della vita, sentimentale, lavorativo, relazionale in genere. Un’età perfetta per capire quali sono le tendenze di questi soggetti nei confronti del cambiamento climatico e di tutti i suoi risvolti nella salute mentale.
Emerge qualcosa anche sulle altre fasce d’età?
Ci siamo focalizzati sui giovani adulti per i motivi di cui sopra. Nelle fasce più adulte è molto più difficile, perché ci sono dei valori ormai consolidati, è molto difficile agire.
L’obiettivo di questo progetto di ricerca è quello di attuare una serie di interventi, come quello dell’educazione ambientale, che possano portare questi ragazzi ad avere una consapevolezza migliore e a cambiare i loro valori, che si stanno formando. In un adulto è molto difficile.
C’è anche un target geografico? Ci sono zone del mondo in cui questi giovani sono più colpiti?
È uno degli obiettivi che si pone il progetto, che vuole indagare non solo a livello regionale, ma nazionale e internazionale. Sarebbe molto interessante capire se in alcune zone del mondo l’impatto ha un peso diverso rispetto ad altre; probabilmente sì. Questo potrebbe essere dato da un’educazione ambientale più forte, in alcuni contesti, o anche perché ci troviamo in zone del mondo particolarmente colpite da eventi catastrofici climatici, ad esempio l’India.
Quest’ansia coinvolge giovani più consapevoli? E questa consapevolezza deriva da una maggiore educazione ambientale e dunque da una maggiore istruzione?
Non da una maggiore istruzione, ma credo sia associata alla consapevolezza dei temi trattati; spesso sulle tematiche del cambiamento climatico c’è molta confusione, si tende a mescolare tante variabili e tanti argomenti che fanno parte di qualcosa di più ampio, il cambiamento ambientale. Abbiamo scelto questa fascia d’età perché è un periodo della vita in cui si potrebbero manifestare i valori biosferici, in grado di riflettere interesse nei confronti della natura, dell’ambiente, fini a sé stessi, differenti da quelli che interessano il benessere della società, che chiamiamo altruistici, che invece riguardano il benessere della società e degli altri esseri umani. Credo che sia un problema legato alla comunicazione e all’informazione che riguarda queste tematiche.
I media hanno un ruolo?
Assolutamente sì, i media devono promuovere l’aderenza ai valori biosferici di cui abbiamo parlato. A volte non è così, per semplice informazione troppo generica o troppo confusa. I social network, ad esempio, sono una potenziale fonte di fake news, e questo potrebbe portare ad una interpretazione completamente errata delle conseguenze del Climate Change. Oppure addirittura potrebbe portare all’estremismo, molto negativo nei confronti di un approccio scientifico sull’argomento.
Noi dobbiamo raccogliere dati, dimostrare che ciò che diciamo è vero, che i cambiamenti climatici hanno un impatto antropico, solo in questo modo possiamo agire in maniera efficace. Se ci soffermano su fonti non attendibili rischiamo di andare fuori strada.
L’eco-ansia, intesa anche come maggiore consapevolezza, è in qualche modo legata al fenomeno dei Fridays For Future e di Greta Thunberg?
In realtà il problema del Climate Change associato alla salute mentale ha una base non recentissima, risale ai primi anni 2000, se non anche prima. Quello che è interessante nella bibliografia è che c’è stato, direi all’incirca tra il 2008 e il 2014, un momento di stallo completo nella trattazione di questi argomenti, che invece negli ultimi anni è aumentata esponenzialmente. Credo però sia più associato all’Agenda 2030 e a quello che c’è stato in seguito, che al fenomeno Greta, anche perché nella ricerca ha un riscontro scientifico diverso. Prima c’erano pochi ricercatori che si interessavano di vera e propria interdisciplinarità e transdisciplinarietà in tematiche legate ai cambiamenti climatici. Gli studi erano perlopiù di settore, tranne pochi casi.
Ma, dalle vostre ricerche, emerge che in qualche modo che la maggiore consapevolezza tra i giovani è legata a fenomeni come quello dei FFF e di Greta?
No, questo non possiamo ancora affermarlo e non è qualcosa che chiediamo esplicitamente durante la somministrazione dei nostri questionari.
Greta, a mio modo di vedere, non rappresenta un aumento della consapevolezza del problema, ma un’attenzione mediatica maggiore alle problematiche legate al Climate Change.
Mi permetto anche di aggiungere che oggi l’Europa stessa con i suoi progetti ci chiede di essere interdisciplinari. Il che significa che dobbiamo fare scienza e farla ai livelli più alti possibili. Questo può generare reali soluzioni.
Esiste, invece, una correlazione tra aumento dell’ansia climatica e crisi pandemica da Covid-19?
Anche qui non abbiamo dati a supporto di questa ipotesi per il nostro progetto di ricerca. Esistono tuttavia alcuni lavori su questo. Certamente la pandemia ha accelerato alcuni processi psicologici legati all’ansia e depressione. Quindi potrebbe considerarsi un fattore di accelerazione, su una pregressa problematica legata alla Climate change anxiety.
Quali sono le conseguenze sociali dell’eco-ansia nella maggior parte dei casi: impegno o disfattismo e disimpegno?
Sono due facce della stessa medaglia. Ci sono soggetti che tendono a lasciarsi andare, completamente. Altri invece tendono a combattere per il proprio futuro, come fanno le specie animali e vegetali che cercano di adattarsi e evolversi davanti al rischio.
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Saperenetwork è...
- Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.
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